Abstract

Although this article is based on a study of theories and intercultural practices in several nursery schools, it is not intended to illustrate the research itself; instead it aims to focus on the possibilities and potential value of the contribution of psychology – in particular social and decision psychology, but not only – in the intercultural debate based on pillars such as philosophy, anthropology, demography, history, sociology, meteorology and other scientific contributions. I will try to indicate what the possible contributions of psychology might be and illustrate how they can play a positive role in processes that can hamper cross-cultural inclusion.

 

Keywords: interculture, psychology, Grounded Theory.

 

Sommario

Questo articolo partendo da una ricerca su pratiche e teorie interculturali in alcune scuole dell’infanzia, non intende illustrare la ricerca in sé, ma vuole invece porre l’accento sulla possibilità e utilità che può avere l’apporto della psicologia – in particolare sociale e delle decisioni, ma non solo – nel dibattito interculturale che poggia su vari pilastri quali la filosofia, l’antropologia, la demografia, la storia, la sociologia, la meteorologia e altri apporti scientifici. Cercherò di indicare quale potrebbe essere il possibile apporto della psicologia tentando di illustrare come questa possa svolgere una valida funzione nei processi che possono ostacolare l’inclusione interculturale.

 

Parole chiave: intercultura, psicologia, Grounded Theory.

 

Introduzione

Entro direttamente in argomento partendo dalla domanda che ha dato avvio alla ricerca su cui si impernia il mio percorso di dottorato in Scienze della Formazione[footnote]Ricerca che cercherò brevemente di illustrare nei paragrafi dedicati alla metodologia e allo svolgimento della ricerca.[/footnote]. «Cosa accade quando in alcune scuole dell’infanzia si attiva un progetto interculturale considerando sia il rapporto che s’instaura tra teoria e prassi sia il peso che assume la politica in simili contesti?» È una domanda di ricerca non troppo rigidamente definita che viene chiamata «concetto sensibilizzante» e che si focalizzerà[footnote]Il termine focalizzazione appartiene alla terminologia del metodo di ricerca detto Grounded Theory e cercherò di darne una breve spiegazione nella parte riguardante la metodologia.[/footnote] in modo progressivo. È un concetto che serve a sensibilizzare l’occhio del ricercatore nel suo accesso al campo e a iniziare la codifica senza per questo determinarla (Charmaz, 2014).

La successiva è una domanda di ricerca un po’ più circoscritta, ma ancora aperta. «Qual è, nelle scuole dell’infanzia, l’influenza delle teorie inconsce degli insegnanti, sul processo tra le teorie interculturali esplicitate e le prassi che loro attuano?» In tale domanda sono accantonati gli aspetti politici e si introduce, invece, il concetto di teorie inconsce. A proposito delle teorie il concetto di riferimento è la virtuosa e necessaria, secondo Dewey (Dewey, 1929), circolarità tra teoria e prassi: per questo autore deve esserci un continuo e circolare scambio di feedback, suggerimenti e richieste tra teoria e prassi e/o tra prassi e teoria. Il senso di questa domanda di ricerca necessita di una sintetica spiegazione in riferimento al termine intercultura che spesso viene confuso con il concetto di multicultura. In realtà la multicultura è un dato di fatto, una situazione che si viene a creare quando in un contesto vi sono persone di diverse provenienze e/o che fanno riferimento a diverse culture; intendendo per cultura non un assieme statico di cose, ma un set di pratiche culturali (Hall, 1997, p. 2).[footnote]«Culture, it is argued, is not so much a set of things – novels and paintings or TV programmes or comics – as a process, a set of practices. Primarily, culture is concerned with the production and exchange of meanings – the “giving and taking of meaning” – between the members of a society or group … Thus culture depends on its participants interpreting meaningfully what is around them, and “making sense” of the world, in broadly similar ways» (Hall, 1997, p. 2). «La cultura, si afferma, non è tanto un’insieme di cose – romanzi e dipinti o programmi TV o fumetti – come un processo, un insieme di pratiche. Primariamente, la cultura si occupa della produzione e dello scambio di significati – il “dare e prendere significato” – tra membri di una società o un gruppo… Così la cultura dipende dai suoi partecipanti che interpretano il significato di ciò che sta loro intorno e “danno senso” al mondo, in modi molto simili» (trad.mia).[/footnote] L’intercultura è invece la prospettiva da cui osserviamo tale situazione, ovvero la prospettiva dell’inclusione. Una prospettiva, in continua via di definizione che dovrebbe, potrebbe essere fattivamente perseguita trovando un equilibrio tra le istanze dell’universalità e della diversità attraverso il riconoscimento delle differenze in una cornice di giustizia sociale (Tarozzi, 2015). Propendere nettamente verso la prima comporta il rischio dell’assimilazione (Zincone, 2009) poiché, nell’idea che siamo tutti uguali non si colgono le differenze. Oltretutto ci si potrebbe porre una domanda di prospettiva: «Uguali a chi?». Può accadere, e di fatto accade ed è accaduto, che ciò significhi implicitamente dire che sono tutti uguali agli autoctoni realizzando di fatto un etnocentrismo che non considera l’alterità ed è perciò assimilante (Meunier, 2007; De Angelis, 2007). Estremizzando invece l’aspetto della diversità, anche affermando che essa debba essere rispettata, possiamo correre il rischio del differenzialismo ovvero l’affermare che le culture sono irriducibilmente diverse, statiche e immodificabili e senza possibilità di una reale comunicazione (Spinelli, 2006).[footnote]«È il peccato fatale di un multiculturalismo che inchioda gli individui nelle grandi famiglie religiose e che vede alleate sinistre e destre estreme, fautrici del cosiddetto differenzialismo (bisogna rispettare le culture diverse, purché non si mescolino con la nostra)». (Spinelli B., «La Stampa», 28 maggio 2006, p. 1).[/footnote] Tale concetto è spesso tradotto nel linguaggio del dibattito pubblico con la seguente frase: «Rispettiamo tutte le culture, ma a casa loro.»

 

Teorie di riferimento

Le teorie da cui parto indicano una controproposta alle divisioni discriminanti e si riferiscono ai modelli dell’inclusione (Ainscow e Booth, 2008), della «cooperazione informale e aperta» (Sennet, 2011) e la visione post-colonialista di Spivak (Spivak, 2002).

Nel primo caso – il modello dell’inclusione – si tratta di un percorso di cambiamento rispetto ad atteggiamenti, prospettive e prassi posseduti e attuati prima dell’interazione (interculturale, nel nostro caso). Un cambiamento inteso come portatore di mutamenti per tutti gli elementi che interagiscono: bambini, insegnanti e, auspicabilmente, anche le famiglie.

La «cooperazione informale e aperta» è una definizione di Sennet che consta di tre termini che desidero commentare. Nel modello di questo sociologo si sottolinea come sia necessario considerare che il miglior modo per relazionarsi con la differenza sia, l’informalità. Tale aspetto permette di non chiudere in limiti ristretti e precisi la comunicazione perché: «Contacts between people of differing skills or interests are rich when messy, weak when they become regulated, like boring meetings run strictly on formal rules of order» (Sennet, 2011, p. 26). Inoltre, la cooperazione prospettata da Sennet, deve essere aperta perché l’intento deve essere quello di scoprire le peculiarità di chi ci sta accanto e quindi non avrebbe senso porsi a priori un obiettivo poiché ciò chiuderebbe la porta a un’effettiva reciproca conoscenza: ciò che risulta dalla cooperazione dovrebbe essere lo sbocco in un proficuo dialogo tra le parti anziché un obiettivo deciso a priori da una delle parti. La cooperazione, infine, presuppone un beneficio per entrambe le parti interessate: un’ottica scevra dalla tentazione di vincere contro e sull’altro (Bauman, 2012).

Nella visione post-colonialista di Spivak è presente la necessità di revisione delle visioni sociali coloniali (Spivak, 2002): un riesame che propone di rivedere gli archetipi di dominante e subalterno.

 

Metodologia

La ricerca utilizza la metodologia qualitativa della Grounded Theory (d’ora in avanti GT) costruttivista secondo la visione di K. Charmaz (Charmaz, 2014). La GT è sia una metodologia (generale), sia un metodo (procedure concrete) fortemente improntato alla sistematicità ed ha la fondamentale caratteristica di produrre una teoria generata dai dati osservati (Tarozzi, 2013).

Strumenti principali sono l’osservazione partecipante (Pavanello, 2009) unitamente a interviste libere; la raccolta dei dati si sviluppa in un percorso a spirale nei momenti delle codifiche (aperta, focalizzata, teorica) e, attraverso lo strumento del campionamento teorico, porta ad individuare le categorie emergenti (e la core category) per sviluppare una teoria che permetta di raggiungere la finalità principale della ricerca ovvero individuare degli elementi che possano permettere di definire il processo tra teoria/prassi nelle pratiche interculturali. I dati raccolti si riferiscono ai significati (e alle loro interazioni) che i partecipanti attribuiscono a ciò che accade nell’ambito indagato. La loro analisi avviene lungo tutto il percorso di ricerca attraverso tre tipi di codifica che sono strettamente collegati ai dati stessi. Abbiamo inizialmente una codifica di tipo aperto da cui inizieranno ad emergere[footnote]Il termine «emergenza» appartiene alla terminologia della GT e serve a dar conto del fatto che i dati (ovvero i significati) emergono non dalla rilevazione che ne fa il ricercatore, ma dalla loro co-costruzione. Una costruzione cui contribuiscono i partecipanti alla ricerca e il ricercatore stesso.[/footnote] (in base alle loro ricorrenze e alla loro valenza esplicativa) alcuni codes significativi, questi vengono poi raggruppati costruendo così delle categorie. L’emergere di queste categorie permette una lettura più focalizzata dei dati che si continuano a raccogliere. Infine quando le categorie sono sufficientemente focalizzate s’inizia la codifica teorica che si chiude quando viene individuata la core category o le core categories fondamento della teoria radicata (grounded) nei dati. I momenti della ricerca qui presentanti come fasi separate e in successione procedono da una minore ad una maggiore astrazione, anche se non sono di fatto distinte tra di loro. Spesso si hanno fughe in avanti verso una maggior astrazione, così come – se emergono nuovi dati – si hanno ritorni sui propri passi ovvero si rianalizzino i dati su cui la ricerca si fonda/radica (Glaser, 2007; Charmaz, 2014). Usualmente nelle ricerche di tipo quantitativo che adottano un tipo di campionamento statistico, la numerosità del campione viene definita a priori. Nella GT, invece, abbiamo la tecnica del «campionamento teorico» che non prevede che la dimensione numerica del campione sia stabilita aprioristicamente. La sua numerosità viene via via definita lungo lo svolgersi della ricerca mano a mano che le categorie iniziano ad emergere sino a quando non avviene la loro «saturazione» ovvero quando esse riempiono le lacune ancora presenti nella teoria in sviluppo: arriviamo alla saturazione nel momento in cui i dati diventano ridondanti – in quanto si ripetono – e non emergono elementi nuovi che possano modificare il quadro sin lì delineato. Ciò è reso possibile dal fatto che la raccolta dati e la loro analisi avviene simultaneamente. Va infine evidenziato che nella GT non vi è un’ipotesi da cui partire e da verificare: si parte da una domanda di ricerca non troppo dettagliatamente definita che viene definita «concetto sensibilizzante». Per illustrare quest’ultimo uso spesso il paragone con la pesca. La scelta della prima rete che utilizziamo determina l’ambito in cui s’inizia la pesca/ricerca ed è una rete dalle maglie piuttosto ampie e corrisponde al concetto sensibilizzante. Successivamente la pesca/ricerca inizia a focalizzare la propria attenzione su un sempre più specifico tipo di pesci/dati ovvero si useranno reti dalle maglie via via più strette e avremo quindi delle domande di ricerca più specifiche e precise. Di fatto verifica dell’ipotesi e teoria si fondono nelle GT poiché essa offre una doppia tipologia di ricerca essendo esplorativa nella parte iniziale per cogliere, sul finire, la prospettiva esplicativa con la creazione della teoria sulla base di quanto esplorato. Nella fase di pesca con la rete a maglie larghe non vi sono ipotesi, ma si esplora un ambito circoscritto dal «concetto sensibilizzante». Successivamente, via via che la domanda di ricerca si fa più focalizzata (rete a maglie strette), inizia ad emergere un’ipotesi che si cerca di verificare basandosi sui significati che emergono dal processo di ricerca ed elaborando una teoria: la GT. In tal modo si ribaltano i termini usuali a tanti ambiti di ricerca in cui partendo da una teoria di riferimento si formula un’ipotesi e si cerca di verificarla. Possiamo dire che l’ipotesi si autoverifica nel procedere della costruzione teorica della GT. La scelta di questa metodologia nella presente ricerca è dovuta a tre principali motivi. Il primo riguarda il fatto che i processi (su cui si focalizzano le domande di ricerca) trovano in essa il mezzo principe di ricerca in quanto essa è concepita proprio per analizzare i processi e i significati a essi sottesi (Charmaz, 2008): «La peculiarità della GT, pur partendo dal linguaggio e dai significati, è quella invece, di cercare regolarità di tipo concettuale […] tratto peculiare della GT è quello di essere particolarmente adatta all’esplorazione non di fenomeni statici, ma dei processi sottostanti a quei fenomeni […]». (Tarozzi, 2013, p. 13). Il secondo si volge, invece, a soddisfare la necessità che la ricerca possa/debba avere una ricaduta quantomeno sui suoi partecipanti. La GT costruttivista soddisfa entrambe le esigenze e oltre a ciò, la prospettiva costruttivista corrisponde alla mia visione di come i significati si costituiscano senza per questo essere soggetto a tentazioni di radicalizzazione costruttivista (Tarozzi, 2016). Infine il terzo punto riguarda il fatto che i partecipanti alla ricerca anziché essere oggetto di ricerca, sono «partecipanti» a tutti gli effetti ovvero «costruiscono» assieme al ricercatore una realtà condivisa (Charmaz, 2003).

 

La ricerca, le sue scelte, i dati emergenti

Più nel concreto, la ricerca è iniziata con la scelta dei territori in cui svolgere l’indagine. In prima battuta ho scelto Trieste, poi Bologna e Lubiana.

Trieste perché? Durante l’impero asburgico abbiamo qui una storia di continui confronti tra diverse etnie, religioni, culture; il tutto era vissuto in un clima di convivenza piuttosto pacifica dovuta anche alla prosperità economica garantita dalla sua peculiarità: la città era un importante porto dell’impero. Con l’ingresso in Italia, diminuendo la propria importanza e autonomia, inizia una fase di decadenza economica e culturale, e con essa, un clima di scontri, in particolare tra sloveni e italiani attraverso le dolorose vicende delle violenze fasciste sugli sloveni e dell’occupazione da parte della Jugoslavia di Tito, della città sotto tutela degli alleati, del ritorno all’Italia. A ciò aggiungiamo le violenze delle foibe, la fortissima presenza di esuli istriani portatori del vissuto di quelle violenze, il rifiuto e il disinteresse verso questo esodo. Il termine esuli aveva paradossalmente assunto il significato di privilegiato in quanto – dopo molto tempo in realtà – erano stati loro assegnati alloggi e posti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni (Kacin Wohinz, 2001).[footnote]Relazioni italo-slovene 1880-1956: http://www.kozina.com/premik/porita.pdf (ultimo accesso: 18/1/2017).[/footnote] La maggior parte degli esuli inoltre provava un forte risentimento nei confronti degli «slavi». Negli anni 60 e 70 vi è anche stato – come nel resto del nord Italia – un rifiuto nei confronti della migrazione interna proveniente dalle regioni meridionali. A questo quadro dobbiamo aggiungere, a causa della guerra nell’ex Jugoslavia, l’arrivo di migranti dalle zone del conflitto. Si è quindi creato negli anni un contesto in cui convivono nuove e vecchie minoranze, nuove e vecchie tensioni, insomma una situazione piuttosto complessa e molto interessante: questa ricchezza di elementi diversi spiega la scelta di questa città quale luogo in cui svolgere la ricerca. La scelta è caduta sulle scuole comunali di Trieste, anziché statali, perché i loro insegnanti avevano già seguito o stavano seguendo un corso di formazione, che ha avuto per oggetto le tematiche dell’interculturalità.

Per effettuare una comparazione ho deciso di indagare anche altri contesti, cercando una città non troppo grande e con una storia meno complessa. La scelta è ricaduta su Bologna poiché possiede queste caratteristiche e appartiene a una regione che ha una forte tradizione pedagogica nell’ambito delle scuole dell’infanzia. Infine Lubiana per allargare ulteriormente le possibilità di comparazione estendendo la ricerca a un sistema scolastico diverso da quello italiano.

 La ricerca si è svolta essenzialmente nelle due scuole che ho scelto a Trieste. In queste due scuole ho svolto tutte le mie osservazioni e le mie prime interviste. Successivamente ho svolto delle interviste in una scuola a Bologna e in un’altra scuola a Lubiana per avere dei termini di paragone. Se nel caso di Lubiana e di Bologna la scelta dei plessi è stata effettuata da dirigenti scolastici sulla base della disponibilità a collaborare con me, per la ricerca, nel caso di Trieste ho potuto essere io ad effettuare la scelta delle scuole. Essendo la continua comparazione un aspetto saliente della GT (Glaser e Strauss, 1965; Glaser, 2007), a Trieste ho deciso di confrontare due scuole con percentuali molto diverse di presenza di bambini appartenenti a famiglie migranti, come si può osservare nella tabella 1 e tabella 2: 40% su 145 bambini in un caso e 12,63% su 95 bambini nel secondo.

 

Tab. 1: Luoghi di origine dei bambini: scuola A con 145 bambini

Provenienza

% su migranti

% su totale

Serbia

23

39,65 %

15,86%

Romania

9

15,51 %

6,20%

Kosovo

6

10,34%

4,13%

Albania

5

8,62%

3,44%

Cina

3

5,17%

2,06%

Filippine

2

3,44%

1,37%

Austria

1

1,72%

0,68%

Bangladesh

1

1,72%

0,68%

Camerun

1

1,72%

0,68%

Egitto

1

1,72%

0,68%

Libia

1

1,72%

0,68%

Macedonia

1

1,72%

0,68%

Moldavia

1

1,72%

0,68%

Slovacchia

1

1,72%

0,68%

Tunisia

1

1,72%

0,68%

Turchia

1

1,72%

0,68%

 

58

100%

40%

 

Tab. 2: Luoghi di origine dei bambini: scuola B con 95

Provenienza

% su migranti

% su totale

Polonia

3

25%

3, 15 %

Croazia

2

16,66%

2, 10%

Etiopia

2

16,66%

2, 10%

Moldavia

2

16,66%

2, 10%

Brasile

1

8,33%

1,05%

Macedonia

1

8,33%

1,05%

Slovenia

1

8,33%

1,05%

 

12

100%

12,63%

 

La scelta dei partecipanti alla ricerca è caduta sui venti insegnanti delle 4 scuole coinvolte nelle tre città, i loro coordinatori e una pedagogista responsabile di un complesso di scuole di Lubiana. Ho scelto queste persone e non dei teorici per l’importanza del ruolo da loro svolto sul campo, una veste in virtù della quale essi fungono da snodo fondamentale nel processo tra teoria e prassi.

Durante un primo periodo (due mesi circa) di osservazioni sul campo è emerso come la mancata consapevolezza (in particolare da parte degli insegnanti) delle teorie e del loro rapporto con la prassi sia un elemento che ha una forte influenza sul processo tra prassi e teoria. Tale elemento ha continuato a ripresentarsi anche nelle interviste libere (trascritte verbatim);[footnote]Ovvero esattamente parola per parola così come hanno parlato gli intervistati.[/footnote] qui di seguito ne presento un esempio.

 

«Io teorie di riferimento non le ho. Perché è una cosa insita dentro di me anche perché, come ti accennavo prima, sono nata in una famiglia non solo cosiddetto mista nord-sud Italia, ma io ho zii in Israele, zii America, ho zii in varie parti del paese e in più i miei ricordi piccolissimi e più belli della mia famiglia sono che per Natale ci ritrovavamo con ebrei, cattolici, osservanti e non. Avevo una zia in, mi sono, ho fatto la comunione che era sposata con mio zio, ebrea,[footnote]Ovviamente l’intervistata intendeva dire ebreo, ma nel parlato si incappa in questi errori molto più di quanto si sia soliti pensare. Si notino i vari errori presenti nella frase.[/footnote] lei cattolica e di madre greco ortodossa».

 

Da elementi come questo si è sviluppata un’elaborazione teorica che, pur rimanendo fondata nei dati, se ne astrae iniziando così a produrre una teoria che fa riferimento ai dati emersi (Grounded Theory). Tale elaborazione – o, più correttamente, codifica – prende in considerazione non un singolo costrutto psicologico, bensì un grappolo di costrutti che si riferiscono a questo specifico elemento della mancata consapevolezza degli aspetti teorici. Questa codifica teorica – poggiando anche sulla base dell’osservazione svolta nei momenti della formazione[footnote]Formazione interculturale organizzata dal Comune di Trieste e dall’ Università degli Studi di Trieste per gli insegnanti delle scuole dell’infanzia comunali. Come già accennato, ho scelto le scuole comunali in virtù della formazione interculturale loro dedicata.[/footnote] – ha permesso di evidenziare come la formazione abbia il ruolo di cinghia di trasmissione del processo tra teoria e pratica. Lo sviluppo della codifica teorica ha anche permesso di cogliere come gli aspetti psicologici indagati (senza escluderne altri) possano costituire un ostacolo al processo tra teoria e prassi. I dati raccolti con osservazioni, dialoghi sul campo, lettura dei PTOF e interviste (si tratta di circa 160 pagine in totale), portano ad un’elaborazione che rileva i seguenti aspetti: da un lato si evidenzia il main concern[footnote]Nella terminologia specifica della GT questo termine indica l’interesse principale dei partecipanti alla ricerca.[/footnote] dei partecipanti – il coinvolgimento delle famiglie in ottica inclusiva[footnote]In tutte e tre le città ho riscontrato come il principale interesse di insegnanti e coordinatori fosse il coinvolgere le famiglie nelle attività, nella vita della scuola. Questo viene da tutti ritenuto lo strumento principale per riuscire ad includere tutti i bambini, perché coinvolgere le famiglie significa farle interagire e porta alla conoscenza reciproca.[/footnote] – e dall’altro l’influenza delle teorie inconsce e il ruolo della formazione come cinghia di trasmissione del processo tra teoria e pratica. Di seguito tratterò solo gli ultimi due poiché scopo di questo scritto non è l’illustrazione dell’intera ricerca, ma evidenziare un possibile ruolo della psicologia all’interno del dibattito interculturale.

 

Fig.1: Nella mappa sono evidenziate le categorie risultanti dai dati emersi nella ricerca.

sabadini

 

Teorie d’impulso: aspetti psicologici che possono influenzare il processo prassi-teoria

Ho precedentemente fatto cenno alla mancata consapevolezza delle teorie. I motivi che portano a questa mancanza possono essere diversi così come può essere diverso il grado d’inconsapevolezza. Sarebbe più corretto parlare di diversi gradi di inconsapevolezza a cui si può giungere attraverso diversi percorsi o seguendo diverse prospettive. Inizialmente, per definire questo aspetto, ho immaginato un neologismo come «teorie dal sottosuolo». Il richiamo a Dostoëvskij (Dostoëvskij, 1942) è evidente e intenzionale e ha una doppia valenza: da un lato per riconoscergli la funzione di precursore del concetto di inconscio elaborato da Freud, in virtù dell’analisi della vita psichica che si svolge appunto nel sottosuolo; dall’altro per evidenziare come una certa situazione culturale e sociale possa portare persone diverse, e con modalità diverse, a percorre strade analoghe. Similmente a quanto accaduto a Dostoëvskij può succedere che qualcuno seguendo le proprie modalità, si avvicini a teorie interculturali senza averne piena coscienza. Le successive frasi, raccolte durante le osservazioni e le interviste con gli insegnanti, mostrano come le insegnanti rilevino la propria inconsapevolezza delle teorie in ambito interculturale.

 

«Alina rileva come le sia spesso capitato di utilizzare nella propria prassi delle teorie di cui ignorava l’esistenza.»

 

«Però, mi rendo conto… tante volte che vado a qualche convegno, qualche corso di formazione, che dico: “Come lo faccio io, no?” Ascolto e… ed effettivamente trovo riscontro dell’operato che… che faccio quotidianamente, un po’ per conoscenza e un po’ proprio per buonsenso tra virgolette, mi ritrovo in esempi, no?»

 

«No. Io, teorie specifiche alle quali mi riferisco, in realtà non ne ho. Io vado più… io sono della scuola vecchia. Mmm… gli studi miei sono relativi… I miei aggiornamenti non sono stati particolarmente ehm… costanti, diciamo. Per cui, guide teoriche purtroppo io ne ho poche. Vado più di natura… diii… impulso, di anima, di getto insomma».[footnote]La prima delle tre citazioni fa riferimento ad una mia osservazione sul campo. Le altre due sono affermazioni fatte da due insegnanti nel corso di due interviste da me effettuate nella seconda fase della ricerca.[/footnote]

 

Poiché nella GT costruttivista risulta importante costruire il significato assieme ai partecipanti, ho deciso di estrapolare – dalla terza delle frasi appena citate – il termine di «teorie d’impulso» (d’ora in poi TDI) per dare meglio conto della prospettiva dei partecipanti. Nel corso della ricerca sono state queste tre frasi a indirizzare la mia attenzione verso le ricadute delle TDI degli insegnanti, sul processo tra teoria e pratica. Il mettere a fuoco l’aspetto delle TDI mi ha portato a una riflessione teorica che tiene conto di vari costrutti e aspetti psicologici; questi aspetti possono, nel loro assieme, far luce sull’elemento dell’inconsapevolezza quale fattore di ostacolo al raggiungimento degli obiettivi inclusivi dell’interculturalità.

 

Nel contempo, quanto elaborato sul base dei dati emersi, suggerisce che lo sguardo interculturale oltre a essere sostenuto dalle colonne portanti della filosofia, della sociologia e dell’antropologia possa e debba essere ancora più ampio. Un modo per ampliarlo può essere quello di abbracciare altri settori scientifici come la demografia, la storia, la meteorologia fino a comprendere l’apporto che può venire dalla psicologia.

In modo particolare – come vedremo – è necessario fare riferimento agli approcci della psicologia sociale e della psicologia delle decisioni e valutazione dei rischi, ma non solo (Fiske e Taylor, 1991; Jones, 1908; Kahneman, 2011; Petty e Cacioppo 1986; Miller, 1998, 1999; Nickerson, 1998; Palmonari, 2002; Slovic, 2010). Per ampliare la nostra visuale in ambito interculturale possiamo proficuamente utilizzare costrutti come razionalizzazione; percezione del rischio; attribuzione situazionale e disposizionale; categorizzazione; bias della negatività; ecc.

 

Ho scelto – per ovvi motivi di brevità – alcuni di questi costrutti, ma ci sono anche l’euristica della disponibilità (Kahneman e Tversky, 1974), il backfire effect (Niyan e Reifler, 2010), il group attribution error (Hamill, Wilson e Nisbett, 1980) e molti altri ancora. La conoscenza di simili costrutti può essere utile sia per la comprensione dei processi ostativi al realizzarsi dell’inclusione sia nella progettazione di percorsi di formazione interculturale. Inoltre, questa conoscenza, può fungere da trait d’union tra l’astrazione teorica e la concretezza della prassi in quanto può indurre a una riflessione teorica su aspetti (i costrutti) che influenzano la prassi nel contesto indagato alla riflessione. Ciò appare importante anche per impedire al costruttivismo – cui si rifà la GT adottata – una deriva di radicalizzazione relativista.

 

Per meglio definire l’illustrazione della ricerca vorrei qui riportare l’elenco dei codes che costituiscono la core category denominata TDI. Per farlo ritengo però sia prima necessario spiegare brevemente cosa si intende, in ambito GT, con questi due termini.

Nell’analizzare i testi delle interviste si cerca di individuare delle unità di senso[footnote]Possono essere frasi, parti di una frase o anche un intero capoverso.[/footnote] a cui poi dobbiamo dare una sintetica denominazione. I codes (codifiche) sono il risultato di questo processo di nominazione dei significati[footnote]Unità di senso.[/footnote] individuati durante la ricerca. La core category, invece, è la categoria centrale della ricerca[footnote]Si veda la mappa concettuale della ricerca.[/footnote] e rappresenta il concetto organizzatore delle categorie della ricerca (Tarozzi, 2013).

 

Elenco dei codes a cui fa riferimento la core category denominata TDI:

  • teorie d’impulso;

  • valenza teorie d’impulso;

  • motivazioni personali;

  • vissuto operatori;

  • commistione prospettive personali e teorie esplicite;

  • conferma proprie intuizioni;

  • soddisfazione conferma proprie intuizioni;

  • credere di essere senza pregiudizi;

  • centralità dell’aver coscienza degli aspetti teorici;

  • opposizione alla novità;

  • valenza ruolo terzi per consapevolezza teorie;

  • sudditanza inconscia insegnanti nei confronti teorici;

  • pacchetto interculturale: motivazioni e teoria;

  • accordo su conoscenza costrutti psicologici;

  • paura: ostacolo a rottura routine.

 

Attraverso la codifica teorica necessaria per identificarli, questi codes e la core category, mi hanno portato, all’individuazione – forzatamente non esaustiva – dei costrutti, concetti psicologici e tematiche che cercherò di illustrare nei prossimi nove sottoparagrafi.

 

Razionalizzazione

È un costrutto identificato da Jones (Jones, 1908) e si tratta sostanzialmente di un meccanismo di difesa che poniamo in atto nel caso di conflitti emotivi e/o in situazioni di dissonanza cognitiva. Lo si attua trovando inconsapevolmente delle spiegazioni che pur essendo errate, permettono di giustificare un nostro pensiero o azione o presa di posizione. Nel nostro caso ciò può avvenire quando si voglia intraprendere un’azione interculturale e i moti inconsapevoli di chi dovrebbe attuarla, frappongono mille ostacoli di varia natura per impedire che questa azione sia portata a compimento. Un esempio concreto può essere dato da chi pur avendo avuto modo di riconoscere – durante corsi di aggiornamento a tematica interculturale – l’importanza dell’inclusione, si chiude dietro a questioni organizzative che ne impedirebbero la realizzazione o renderebbero inutile qualsiasi tentativo in tal senso. Gli aspetti organizzativi divengono così la forma che si trova ad assumere la giustificazione che permette, all’inconscio rifiuto dell’altro, di rimanere inconsapevole.[footnote]Questo interporre le difficoltà degli aspetti organizzative come sistema per non attuare azioni didattiche o indicazioni pedagogiche è una modalità cui ho spesso assistito durante la mi più che decennale esperienza lavorativa nelle scuole dell’infanzia.[/footnote] Ciò può rendere accettabile il "sabotaggio" dell’azione in prospettiva interculturale, mentre sarebbe inammissibile qualora fosse supportato da aperte posizioni razziste.

 

Temi sensibili

Nel corso della ricerca è emerso un dato: un tema spesso definito come eticamente sensibile ovvero il tema della «teoria del gender» che provoca molte – e spesso accese reazioni come accade per le migrazioni.

Perché questi temi determinano tali risposte mentre altri non ne sortiscono alcuna? «Perché il dibattito pubblico si disinteressa dell’inquinamento mentre le migrazioni sono continuamente sulle prime pagine dei giornali?» Quest’ultima, e più specifica, domanda è scaturita durante un dialogo informale – e slegato dalla ricerca – su questo argomento, tra me e un professore di Pedagogia Generale e Sociale dell’Università degli Studi di Bologna. Successivamente, indagando l’argomento, ho trovato che nel rapporto dell'Oms Preventing disease[footnote]«Preventing disease through healthy environments: a global assessment of the burden of disease from environmental risks» http://apps.who.int/iris/bitstream/10665/204585/1/9789241565196_eng.pdf?ua=1 (ultimo accesso: 18/1/2017) http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2016/03/15/oms-126-mln-morti-per-inquinamento_ac8635c2-a6aa-4c13-bdb2-329670c08d06.html (ultimo accesso: 18/1/2017).[/footnote] si può scoprire come nel 2012 siano morte nel mondo 12,6 milioni di persone a causa dell’inquinamento (una morte su quattro è dovuta all’inquinamento), tra cui 1,4 milioni nella sola Europa: anziché essere dibattuta tutti i giorni dai media, la notizia passa quasi inosservata.

Questo dato mi ha portato a una riflessione su come la paura della diversità (compresa quella di genere) tocchi corde inconsce molto più profonde rispetto a quelle della minaccia dell’inquinamento ambientale. Infatti la paura del diverso ha a che fare con una serie di costrutti e teorie che cercherò di illustrare nei prossimi quattro sottoparagrafi.

 

Percezione del rischio

«As surmised by Douglas and Wildavsky (1982), individuals tend to conform their view of the risks of putatively dangerous activities ⎯ commerce and technology, guns, abortion ⎯ to their cultural evaluations of them. Because individuals’ identities are threatened when they encounter information that challenges beliefs commonly held within their group (Cohen et al. in press), the result is political conflict over risk regulation among groups committed to opposing hierarchical and egalitarian, individualistic and communitarian worldviews.» (Slovic, 2010, p. 179). Il fatto che la percezione del rischio sia determinata da fattori culturali può spiegare come le posizioni sulla teoria del gender e sul tema delle migrazioni possano dipendere dall’approccio culturale (cultural evaluations of them) facendo sì che questi argomenti siano vissuti come più pericolosi rispetto all’inquinamento. Ovvero le questioni di genere e le migrazioni sono valutati culturalmente come maggiormente rischiosi. Inoltre la diversità, rispetto al problema dell’inquinamento, può essere anche data dal fatto che la diversità di genere e quella di gruppo[footnote]Si intende gruppo culturale.[/footnote] siano maggiormente sentite perché più legate all’economicità cognitiva e a meccanismi base di sopravvivenza.

 

In- group e out-group

Greene, ci spiega che l’umanità si divide in Moral tribes evidenziando come l’essere umano abbia diversi parametri morali per chi appartiene al «noi» e per chi appartiene al «loro» (‪Greene, 2013).

Analogamente Augusto Palmonari (Palmonari, 2002) ci illustra, riferendosi in particolare a Tajfel (Tajfel, 1970; 1971) come la necessità di economizzare le risorse cognitive, porti gli individui a valersi della funzione adattiva della categorizzazione. Ciò comporta delle conseguenze riguardo al modo di vedere il proprio e l’altrui gruppo. L’out-group viene visto come un’unità omogenea in cui tutti si assomigliano mentre nell’in-group si percepiscono le differenze soggettive e si promuove il favoritismo nei confronti degli appartenenti all’in-group. Inoltre accade che vi sia una modalità diversa di attribuzione (attribution effect) delle motivazioni comportamentali che muovono gli individui. Per gli individui appartenenti all’in-group, questa modalità è situazionale ovvero è legata al contesto: quando si giudicano le motivazioni che muovono le azioni di un appartenente al nostro gruppo cerchiamo una spiegazione nel contesto. Per i membri dell’out-group, invece, l’attribuzione è disposizionale ovvero legata alle intrinseche modalità del gruppo, alla (pre)disposizione che si ritiene caratterizzi i membri di un determinato gruppo diverso dal proprio. L’attribuzione situazionale si collega all’importanza del contesto come elemento che deve essere indagato per poter cogliere e affrontare nella loro pienezza tutti i fenomeni. «A phenomenon remains unexplained as long as the range of observation is not wide enough to include the context in which it occurs.» (Watzlawick et al., 1967, p. 20).

 

La modalità di attribuzione riferita all’in-group è generata dalla ridotta elaborazione dei dati dovuta all’esigenza di economizzare le risorse cognitive – conosciuta come cognitve miser – (Fiske e Taylor, 1991), una necessità da cui deriva l’uso delle categorizzazioni. Poiché la nostra mente è necessariamente limitata, essa deve fare uso delle categorie per poter analizzare il mondo circostante.

Palmonari illustra come dal processo di categorizzazione discendano gli stereotipi, quindi i pregiudizi e infine le discriminazioni che vengono poi concretamente messe in atto.

La limitatezza dell’intelletto umano rende obbligato e «naturale» il nostro ridurre a categoria l’altro, il gruppo diverso dal nostro, la sua cultura, rendendoli statici e uguali a se stessi. Ciò porta alla necessità di identificazione con il proprio gruppo, spesso un’identificazione definitiva e statica. Inoltre la «fisiologica» necessità di identificarsi nel proprio gruppo porta al bisogno di cercare e sentire le proprie radici. In realtà le dinamiche che generano gli stereotipi, i pregiudizi e le discriminazioni, fanno cogliere come questi «figli» delle categorizzazioni non siano un elemento predeterminato, statico, ma siano piuttosto il risultato di processi in continua e costante modificazione (Palmonari, 2002).

 

Questa economizzazione delle risorse cognitive – favorendo le categorizzazioni – legandosi a un atteggiamento teso a cogliere se chi abbiamo di fronte sia amico o nemico, preda o predatore, cibo o pericolo mortale, ha delle conseguenze sul peso di determinati temi. Quelli che vengono recepiti attraverso questa via «economicista» sono maggiormente coinvolgenti rispetto ad argomenti meno immediati, più mediati e non soggetti a una valutazione così istantanea ed essenzialmente binaria. L’inquinamento non risponde a questa logica «economicista» poiché necessita, per essere colto, di un processo maggiormente consapevole ed elaborato.

 

Bias della negatività o Negativity bias (loss avversion)

A un diverso livello, ma altrettanto profondo, lavora senza che se ne sia consapevoli il negativity bias. Questo bias – dimostrato da Tversky e Kahneman (Tversky e Kahneman, 1984; Tversky e Kahneman, 2003) – può essere utilmente richiamato per rispondere a un’altra domanda ovverosia al perché gli argomenti, negativi risultino avere grande efficacia nel dibattito pubblico. Il grafico seguente illustra questo processo detto anche negatitvity effect o loss avversion: l’uomo sceglie di evitare una perdita piuttosto che cercare di ottenere un beneficio. A parità di intensità gli elementi negativi hanno un maggior peso sulle decisioni che l’uomo compie. Nella Figura 2 si vede come la curva che riguarda la possibile perdita di 100 £ sia più ripida rispetto al possibile guadagno di 100 £. In altri termini vale più la paura del desiderio, questo porta a rifiutare una scommessa in cui ci si giochi 100 £ pur se, dall’altro lato, avremmo la possibilità di vincerne altrettante.

 

Figura 2[footnote]Immagine elaborata dall’autore del presente articolo.[/footnote]: curva che mostra che la possibile perdita di 100 £ sia più ripida rispetto al possibile guadagno di 100 £

sabadini 2

 

Riguardo a tale argomento Kahneman afferma: «The psychologist, Paul Rozin, an expert on disgust, observed that a single cockroach will completely wreck the appeal of a bowl of cherries, but a cherry will do nothing at all for a bowl of cockroaches.» (Kahneman, 2011, p. 302)

Pensando alla situazione multiculturale nel nostro paese, ma non solo, ci si può facilmente rendere conto della forza che hanno nel dibattito pubblico gli aspetti negativi. Basti prendere in considerazione gli argomenti categorizzanti, discriminanti e tesi a indurre paura del diverso, come possono essere invasione, delinquenza, lavoro rubato…

 

Processi decisionali

Ogni attività o azione richiede di essere preceduta da una decisione. Ciò avviene anche nei passaggi tra prassi e teoria o tra teoria e prassi e succede, quindi, pure nel processo di attuazione delle teorie interculturali.

Ciò richiama l’attenzione verso lo studio dei processi decisionali, processi che sono strettamente collegati ai costrutti appena illustrati della loss avversion e della risk perception. Kahneman[footnote]Assieme ad Amos Tversky, premio Nobel per l’economia «for having integrated insights from psychological research into economic science, especially concerning human judgment and decision-making under uncertainty». Fonte: http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/economic-sciences/laureates/2002/index.html (ultimo accesso: 18/1/2017).[/footnote] evidenzia come i processi decisionali siano guidati da due diversi tipi di pensiero: uno veloce intuitivo e l’altro lento e riflessivo. Il primo, chiamato sistema 1, pilota gli automatismi della quotidianità (come il guidare, il giudizio che si dà di una situazione o di una persona, ecc.): esso può dar luogo ai bias ovvero errori sistematici dovuti all’influenza di stereotipi che il cervello utilizza per motivi ‘economicisti’ e che entrano in gioco nell’intuizione. L’altro, il sistema 2, si «accende» quando si svolgono delle attività in cui sono necessari concentrazione e autocontrollo.

Il primo ha un peso decisamente maggiore nelle decisioni che prendiamo anche perché molte delle informazioni che giungono alla nostra coscienza vi arrivano per via inconscia poiché il lavoro mentale avviene in modo silenzioso nel cervello (Kahneman, 2011).

Il dato evidente che emerge riguarda il basso livello di razionalità che guida le nostre azioni: un aspetto da tenere in considerazione poiché ciò influisce sull’attuazione delle teorie interculturali e non solo.

 

Teoria del percorso periferico della persuasione

È una teoria formulata da Petty e Cacioppo (Petty e Cacioppo, 1986) e spiega come le modalità della persuasione seguano due vie, quella centrale e quella periferica. La via centrale richiede che la persona, che si sta cercando di convincere, sia particolarmente attenta agli argomenti e ragionamenti che le vengono presentati. La via periferica, invece, si rivolge al destinatario del messaggio con semplici stimoli positivi e negativi, attraversi contenuti emozionali. Questa seconda modalità ha, secondo i cognitivisti, una maggior efficacia in virtù dell’inconsapevolezza (o scarsa consapevolezza) della ricezione del messaggio da parte del destinatario (Codeluppi, 1997). Però, nel caso di persone sorrette da profonde motivazioni e ben informate, la via periferica perde la propria efficienza. Un manifesto come «Clandestino è reato» non riesce a persuadere chi lavora da anni in prospettiva interculturale.

 

In una situazione multiculturale la via periferica può essere rappresentata da messaggi che creano un link tra migrazione e delinquenza. Specificare sempre la nazionalità del delinquente quando un reato è commesso da uno straniero è un modo per indurre il destinatario del messaggio a collegare i concetti di reato e delinquenza alla semplice condizione di essere straniero.

 

Bias di conferma

Si tratta della propensione – nell’elaborazione delle informazioni – a cercare conferme delle proprie opinioni e convincimenti tendendo a escludere le disconferme.

 

«Our natural tendency seems to be to look for evidence that is directly supportive of hypotheses we favor and even, in some instances, of we are entertaining but about which are indifferent.» (Nickerson, 1998, p. 211)

 

Un esempio può essere dato dall’elevato numero di cittadini stranieri nelle carceri di Trieste che porta alla corrispondenza straniero uguale a delinquente e a rifiutare i profughi per motivi di sicurezza pubblica. Chi è convinto vi sia una diretta correlazione non tiene conto del fatto che il prefetto di Trieste abbia pubblicamente sottolineato come negli ultimi due anni, con l’arrivo dei profughi, il flusso di arrivi sia enormemente aumentato mentre la criminalità è invece diminuita. Così come non prende in considerazione che, quando si mette un gruppo ai margini della società, lo si sospinge verso attività di tipo criminale.

 

Pedagogia nera

Con la pedagogia nera entriamo nell’ambito della psicoaffettività ed anche nell’ultimo sottoparagrafo dedicato alle TDI. Questo aspetto è emerso, nel corso della ricerca, durante le osservazioni perché ho rilevato due atteggiamenti, tra loro contrapposti, che mi hanno portato a una riflessione.

Voglio partire dalla riflessione per poi illustrare da cosa sia stata indotta: la flessibilità didattica degli spazi, delle routine è funzionale all’inclusione. In effetti l’inclusione richiede flessibilità per permettere una piena relazione di scambio quale quella suggerita da Ainscow e Booth (Ainscow e Booth, 2008).

 

Ma cosa ho osservato dunque? Mi sono accorto che alcuni insegnanti ponevano in atto alcune delle modalità della pedagogia nera, evidenziata dalla sociologa Katharina Rutschky (Rutschky, 1997) e approfondita dalla piscoterapeuta Alice Miller (Miller, 1985, 1986, 1998, 1999, 2002, 2005).

«… qu’elle nomme “pédagogie noire”, une pédagogie qui occulte les véritables exigences des parents et des éducateurs nobles en apparence (“c’est pour ton bien!”), ignobles en réalité (“reste sous notre dépendance, obéissant, discipliné”) et qui parvient à transformer les sentiments d’injustice ou la révolte dont l’enfant pourrait légitimement être saisi, en culpabilité, en mésestime de soi, en conscience de sa propre méchanceté» (Maggiori, 2004).[footnote]http://www.alice-miller.com/les-quatre-cents-coups/, (ultimo accesso: 18/1/2017), «… che lei chiama “pedagogia nera”, una pedagogia che occulta le vere esigenze dei genitori e degli educatori. Nobili in apparenza (“è per il tuo bene!”), in realtà ignobili (“rimani dipendente da noi, obbediente, disciplinato”) e che giungono a trasformare i sentimenti di ingiustizia o la legittima rivolta del bambino, in senso di colpa e disistima di sé, nella coscienza della propria cattiveria» (trad. mia).[/footnote]

«La pédagogie noire a pour but l'obéissance à tout prix, y compris l'aveuglement pour toute la vie» (Miller, 2002).[footnote]«La pedagogia nera ha come scopo l'obbedienza a ogni costo, compresa la cecità per tutta la vita.» Trad. mia.[/footnote]

Ho incontrato la pedagogia nera, già nelle fasi iniziali delle mie osservazioni, durante un dialogo con Jul, una partecipante alla ricerca.

 

«Jul evidenzia come i b/i socialmente svantaggiati che incontrano una figura adulta di riferimento per loro positiva, possano volgere in vantaggio la propria situazione disagiata, forti delle difficoltà attraversate e del sostegno di tale figura».[footnote]Mia osservazione sul campo.[/footnote]

 

La figura cui si riferisce Jul ricopre un ruolo analogo a quello del testimone soccorrevole presente diffusamente nella letteratura di Alice Miller, un ruolo assimilabile al facilitatore rogersiano (Murgatoryd, 1985).

Se questo è un esempio di soluzione delle conseguenze della pedagogia nera ve ne sono altri che invece ne definiscono i contorni. Di seguito ne accennerò giusto alcuni tra quelli osservati: pensare che una sculacciata possa essere sana; utilizzare punizioni e premi; dire che il ricercatore (il sottoscritto) toglierà loro il gioco se non… ; proporre ripetutamente giochi per ottenere disciplina, silenzio; ecc. Questo tipo di approccio sottende idee come quelle che: i genitori o qualsiasi altro adulto gli adulti meritino maggior rispetto che i bambini; che l’obbedienza sia un valore fondamentale e non negoziabile; che le richieste dei bambini non vadano assecondate; che i bambini vadano manipolati e contenuti. Spesso in Miller troviamo descritti casi estremi di veri abusi e violenze, ma altrettanto frequentemente Miller tratta di soprusi più sottili, ma non per questo innocui, perpetrati da adulti che attuano quella che la studiosa definisce la pedagogia nera. Una pedagogia ancora molto diffusa che sottopone i bambini a continui soprusi, umiliazioni, e li immerge in una profonda mancanza di rispetto per ciò che essi sono e per ciò in cui essi potrebbero svilupparsi (Miller, 1985, 1985, 1986, 1998, 1999, 2002, 2005).

 

Vorrei specificare che l’intensità degli approcci da pedagogia nera da me osservati è piuttosto bassa. Inoltre capita anche che lo stesso insegnante abbia con i bambini anche approcci diametralmente opposti ovvero di apertura e flessibilità, ma anche di chiusura e manipolazione. C’est a dire: il problema non è tanto del singolo insegnante o di un gruppo di insegnanti, ma è negli atteggiamenti che possono variare a seconda delle situazioni.

Sull’altro versante ho rilevato quanto, in una delle due scuole osservate, i bambini fossero molto liberi di muoversi nei locali della scuola. Ciò ha portato ad individuare la flessibilità come un possibile elemento funzionale all’inclusione. Infatti permettere ai bambini di muoversi liberamente nello spazio fisico – ma non solo – offre loro maggiori occasioni per interagire, includere ed essere inclusi. Questo aspetto della flessibilità si collega anche all’importanza dell’educazione informale, dell’uscire dalle routine per cogliere l’altro e l’alterità, evidenziati nel corso di formazione interculturale seguito da entrambe le scuole: si tratta di un concetto affine a quello dell’informalità nel pensiero di Sennet (Sennet, 2011).

 

Per contro la didattica direttiva o eccessivamente direttiva – per certi versi assimilabile alla pedagogia nera – riempiendo tutto lo spazio-tempo dei bambini a scuola, offre minori possibilità di interazione e inclusione. Un modello che rifugge questa stringente direttività e idealmente collegabile al lavoro di Miller (Olivieri, 2013) è quello dell’approccio centrato sulla persona (Rogers, 1986). La prospettiva rogersiana si focalizza sui tre pilastri fondanti dell’empatia, della congruenza, della considerazione positiva incondizionata e invita a una didattica flessibile, democratica, centrata sulla persona lasciando sullo sfondo le diversità culturali pur senza disconoscerle. Ma i modelli, i metodi come le idee devono passare attraverso le pratiche e soprattutto attraverso le persone che li mettono più o meno in atto e ciò ci riporta a costrutti come quelli sin qui illustrati e che possono essere di ostacolo o di stimolo alla circolarità del processo teoria-prassi o prassi-teoria.

 

La questione dei freni alla circolarità tra teoria e prassi

Pur concordando con la prospettiva della pedagogia fenomenologica sul fatto che «[…] tra momento teorico e momento operativo esiste pertanto una relazione sia di necessità, sia di costante reciprocità» (Cavana 2009, p. 207), si deve però rilevare come questi due momenti siano spesso vissuti come distanti e spesso contrastanti.

Uno dei possibili freni può essere quello del sostanziale disinteresse da una parte del mondo accademico al ricevere dei feedback dal campo. È l’atteggiamento, di alcuni accademici, che consiste nel rivolgersi al solo ambiente accademico come possibile interlocutore. Ma il possibile disinteresse da parte di alcuni teorici è uno degli immaginabili motivi: la mancata comunicazione può essere dovuta anche a concrete difficoltà di accesso al campo come il rifiuto del dialogo da parte delle e degli insegnanti.

 

Sul versante opposto, quello dei «pratici», entrano in gioco la psicologia sociale, dei processi decisionali – con i costrutti già illustrati – a fungere da motori delle TDI che possono ostacolare un processo circolare tra teoria e prassi.[footnote]Mi riferisco agli esempi citati nell’illustrazione dei costrutti presentati.[/footnote] Si può però avere anche un netto e consapevole rifiuto del mondo accademico e con tutto quanto attenga alle «teorie». Queste ultime possono esser viste, dagli insegnanti, come un qualcosa di distante e contrapposto alla prassi oppure come un qualcosa di troppo elevato e irraggiungibile.

Da insegnante e ricercatore ho avuto modo di osservare come i freni – che interessano sia il polo pratico sia quello teorico – possano svolgere una concreta azione sul processo di circolarità tra prassi e teoria. Ho anche riscontrato – a partire da me stesso – la tendenza a vedere il processo tra teoria e prassi come un processo che parte dai teorici i quali dovrebbero ricevere dei feedback dai pratici che sperimentano la teoria sul campo (concetto non chiaro). Nulla vieta che siano gli insegnanti a rivolgersi ai teorici per risolvere, ad esempio, un problema riscontrato nella pratica.

 

Conclusioni

Nello svolgimento di questa indagine la domanda di ricerca è infine diventata: «Come l’inconsapevolezza influenza la circolarità del processo tra prassi e teoria in ambito interculturale nelle scuole dell’infanzia?»

La risposta ha portato a cogliere la centralità degli aspetti formativi e psicologici e la loro incidenza nel processo circolare teoria-prassi in ambito interculturale. La proposta è quella di rivolgersi alla psicologia, ed in particolare ad alcuni costrutti psicologici, per utilizzarli come lente per analizzare le resistenze sia all’interno del processo indagato sia più in generale nei confronti del diverso. Oltre a ciò possiamo utilizzare la conoscenza di tali costrutti anche come strumento per progettare la formazione, vera cinghia di trasmissione del processo analizzato.

Il vero e principale target della formazione è l’ampia zona grigia intermedia che troviamo sul segmento che ha ai suoi estremi da un lato il rifiuto e dall’altro l’inclusione. Intendo riferirmi a quella fascia di insegnanti – o aspiranti tali – che non ha una posizione ben definita riguardo alla multiculturalità[footnote]Ricordo qui come il termine multiculturalità faccia riferimento ad un dato di fatto, ad una situazione esistente.[/footnote] e alle prospettive interculturali. L’affermazione che il principale obiettivo della formazione risulti essere la zona grigia è collegabile a due osservazioni. La prima riguarda il fatto che chi ha scelto di stare dal lato dell’inclusione abbia minor necessità di essere motivato. La seconda osservazione, invece, fa riferimento alla estrema difficoltà a persuadere chi si chiude su posizioni razziste, anche se non si deve rinunciarvi. L’individuazione della zona grigia, come obiettivo principale della formazione, è tesa a impedire che i vari costrutti che ostacolano le azioni interculturali abbiano modo di agire interferendo con il processo tra teoria e prassi in ambito interculturale. Infatti proprio il tipo di costrutti di cui abbiamo trattato danno maggior forza a quegli aspetti del dibattito pubblico già citati. Aspetti come possono essere il lavoro rubato, la delinquenza, l’invasione: sono argomenti che portano al rifiuto quando non al razzismo vero e proprio.

 

Perciò è necessario che la formazione sia in grado di utilizzare anche degli strumenti quali quelli forniti dalla psicologia – utilizzati anche dal marketing e dai media – come la persuasione periferica alternata a quella centrale, predisporre elementi per un’euristica della diponibilità, negativity bias, eccetera. Come abbiamo visto il principale interesse (main concern) dei partecipanti alla ricerca è il coinvolgimento delle famiglie per poter meglio includere tutti i bambini qualsiasi sia il loro luogo di provenienza. La ricerca risponde al loro desiderio di raggiungere tale obiettivo individuando come il suo raggiungimento possa essere ostacolato dall’azione di costrutti psicologici quali quelli analizzati. Inoltre questa risposta indica i possibili utilizzi di questa conoscenza delle modalità attivate da simili costrutti: il conoscerli può fungere da strumento per togliere efficacia al potere che essi hanno di ostacolare l’azione interculturale. È una risposta che, a mio parere, potrebbe e dovrebbe essere ulteriormente verificata in una ricerca di tipo quantitativo o mista, applicando concretamente nella formazione quanto esposto. Ma, al di là delle risposte date dalla ricerca, desidero mettere soprattutto in evidenza l’utilità, la necessità dell’approccio psicologico all’interno del dibattito interculturale. All’interno di questo dibattito trova molto spazio la filosofia poiché permette un approccio prospettico. Ampio spazio viene anche dato all’antropologia in quanto essa è lo strumento per descrivere culture e indagare il concetto stesso di cultura. Anche la sociologia svolge un ruolo molto importante. Ritengo che sia necessario dare un maggior peso alla psicologia all’interno di questo dibattito. Può essere davvero utile cogliere appieno quali meccanismi psicologici contribuiscano a creare significati. In questo modo potremmo meglio analizzare, non solo il processo che si sviluppa tra prassi e teoria all’interno dell’agire interculturale, ma anche altri aspetti legati dell’interculturalità. Da quanto illustrato si evince una tripla funzione di questa prospettiva psicologica: lente per indagare, strumento per la formazione e trait d’union tra astrazione filosofica, riflessione accademica e prassi all’interno di un contesto. Pur non volendo definire la dimensione di questo approccio della psicologia nel dibattito interculturale, vorrei evidenziare un aspetto associato all’indagine di alcuni processi mentali. Questo tipo di analisi può toccare le motivazioni profonde che riguardano sia le prospettive sia le azioni interculturali. Ciò può dare maggior vigore e nuovi spunti al relativo dibattito divenendo, nel contempo, un valido utensile per concrete azioni formative e didattiche.

 

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