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Primavere arabe o inverno della ragione? Storia, pregiudizio, intercultura: un invito alla comparazione storica - Arab Spring or winter of reason? History, prejudice and interculturalism: an invitation for historical comparison

Giorgio Dal Fiume

Laureato in Storia e Scienze della Formazione, lavora nel Commercio Equo e Solidale. Dal 1991 si occupa di intercultura come formatore e docente. Ha coordinato il Master in Pedagogia Interculturale promosso dall’Università di Bologna ed è autore di articoli e saggi sul tema dell’interculturalità, con particolare attenzione agli aspetti storici e geo-politici.


Abstract

Gli eventi genericamente definiti come Primavere Arabe sono stati oggetto di una forte attenzione mediatica. L’analisi di alcune valutazioni di questi eventi effettuate in Occidente conferma come l’interpretazione storica sia un ambito fortemente influenzato dalle dinamiche interculturali, luogo prioritario di affermazione delle presunte gerarchie tra civiltà. L’esempio delle Primavere arabe viene utilizzato in questo articolo non per giungere a valutazioni rispetto a questi specifici fatti storici, quanto per evidenziare come il «fluire del tempo» costituisca fattore primario nel costruire meccanismi di stereotipizzazione e discriminazione. E come quindi tale ambito meriti attenzione e studio da parte di chi occupa di intercultura, in quanto contribuisce significativamente alla percezione dell’Altro/a da sé.



 

 

Abstract

The so-called Arab Spring events have been the subject of extensive media coverage. The analysis of some evaluations of these events made in Western countries confirms that history and historical interpretation is an area which is heavily influenced by intercultural dynamics, a place of priority where alleged «hierarchy among civilizations» can be affirmed. The example of the Arab Spring is not used in this article to make evaluations about these specific historical events, but to highlight how the «flow of time» constitutes a primary factor in building mechanisms of stereotyping and discrimination. And why it deserves more attention and study from intercultural experts because it contributes significantly to the perception of cultural differences.

 

Key words: interculture, history, Islam, stereotype, time, media.

Sommario

Gli eventi genericamente definiti come Primavere Arabe sono stati oggetto di una forte attenzione mediatica. L’analisi di alcune valutazioni di questi eventi effettuate in Occidente conferma come l’interpretazione storica sia un ambito fortemente influenzato dalle dinamiche interculturali, luogo prioritario di affermazione delle presunte gerarchie tra civiltà. L’esempio delle Primavere arabe viene utilizzato in questo articolo non per giungere a valutazioni rispetto a questi specifici fatti storici, quanto per evidenziare come il «fluire del tempo» costituisca fattore primario nel costruire meccanismi di stereotipizzazione e discriminazione. E come quindi tale ambito meriti attenzione e studio da parte di chi occupa di intercultura, in quanto contribuisce significativamente alla percezione dell’Altro/a da sé.

 

Parole chiave: intercultura, storia, Islam, stereotipo, tempo, media.

 

 

«Un fenomeno può risultare inspiegabile finché il campo di osservazione non è sufficientemente vasto da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica» (Contini, 2002, p.10)

«Vietare l'ingresso dei musulmani negli Stati Uniti»

«Barack Obama? Forse in una moschea si sente a suo agio»

«L’Islam ci odia»1 

 

Storia e pregiudizio

Se usate il più classico dei motori di ricerca su internet alla voce «Islam e democrazia», in 0,61 secondi vi arrivano 18.100 risultati, e tutti solo in italiano. Se cercate la stessa frase in inglese (Islam and democracy) in 0,63 secondi di risultati ve ne escono oltre 361.000. Da più di un decennio, l’Islam rappresenta uno dei temi maggiormente discussi (spesso il primo) nei media occidentali. Declinato e proposto in modalità diverse, rappresentato sulla base di tematiche differenti – religione, terrorismo, migranti, democrazia, diritti umani, progresso, modernità, medioevo…– è facile rintracciare (anche in Italia) alcune costanti rispetto a come i media e la pubblicistica affrontano questo argomento. Questa massa di informazioni, storie, immagini (ed emozioni conseguenti) ci aiuta a capire meglio? Si traduce in dibattito che agevola l’approfondimento e il confronto delle posizioni diverse? Quanto incide nella costruzione dell’immagine dell’altro/a l’essere in un’epoca nella quale con un click sul nostro cellulare possiamo accedere al mondo intero, e nella quale il mondo intero entra in casa nostra e nella nostra agenda – fisicamente tramite la presenza di stranieri, o virtualmente con le immagini e i contenuti delle notizie – senza averlo necessariamente invitato?2 

 

La risposta a quest’ultima domanda è scontata: moltissimo. Ma c’è un aspetto a ciò connesso a mio avviso meno scontato, non pienamente indagato nelle sue implicazioni e non tenuto sufficientemente in considerazione nella definizione delle politiche sociali e educative che dovrebbero occuparsi di interculturalità. Un aspetto che appare a prima vista banale, ma che è invece almeno in parte nuovo, e che comporta conseguenze sostanziali: siamo continuamente immersi in una dimensione interculturale. Parlando di Occidente e salvo eccezioni o eremitaggi, questo è un fatto generalizzato, già avvenuto, indipendente dalla volontà di ciascuno. I miei genitori, e forse anche i vostri, vivevano in un contesto molto differente. Volente o nolente ognuno di noi è oggi portatore di un’immagine dell’altro/a ben più concreta (che non significa realistica) rispetto a quella che si produceva nei tempi in cui gli abitanti dell’Asia venivano conosciuti leggendo i libri di Salgari. Una immagine quindi più in grado, rispetto al passato, di determinare l’approccio verso la differenza culturale e chi la rappresenta, ben prima di incontrare effettivamente lo straniero e spesso indipendentemente da come l’incontro avviene.

Confrontarsi con questa immagine è questione complicata, in quanto solo in parte essa è determinata da aspetti che è possibile affrontare o modificare con un approccio razionale, dato che «l’atteggiamento che spontaneamente proviamo nei confronti della differenza culturale ed etnica è un sentimento» (Dal Fiume, 2016, p. 164): «Questo sentimento è ciò che chiamiamo identità etnica. Esso è conseguenza, e al tempo stesso giustificazione, di una “etnicizzazione della differenza”, una strategia che consente a degli individui, che si riconoscono come membri di un gruppo, di progettare – in contrapposizione ad altri gruppi concorrenti e in circostanze ben determinate – azioni comuni in vista di uno scopo di tipo politico» (Fabietti, 1998, p. 133). E avere a che fare con i sentimenti, e agire su di essi, è questione quanto mai complessa, non affrontabile solo con contenuti ed evidenze oggettive. Lo sanno bene quei politici che basano la ricerca del consenso su programmi politici rappresentati da slogan quali America First, o Padroni a casa nostra.

 

Queste immagini dell’altro/a non sono mai neutre, sono sempre portatrici di significato. Se è vero che vediamo o sentiamo solo ciò che riusciamo a significare,3 possiamo allora per esempio affermare che il significato della rappresentazione dell’Islam con la quale prima o poi tutti noi occidentali entriamo in contatto, ha acquisito una complessità inedita rispetto al passato. Inedita perché si sono espansi e moltiplicati in modo esponenziale i fattori che nutrono la nostra immagine dell’altro, e dell’Islam in particolare. La peculiarità di questa complessità risiede nel fatto che i pregiudizi in epoca contemporanea derivano non tanto (come era fino a pochissimi decenni fa) dalla mancanza di conoscenza, ma soprattutto da un eccesso di esposizione dell’altro/a, e quindi – spesso – da una presunzione di conoscenza la cui corrispondenza con la realtà sarebbe tutta da verificare. Sempre meno quindi la percezione dell’altro/a consegue dalla diretta esperienza personale o dalla dimensione locale, ma sempre più, invece, dalla dimensione globale e dall’esperienza indiretta, cioè mediata da informazioni che riceviamo continuamente ma rispetto alle quali non siamo (la maggioranza di noi) in grado di impostare quel dialogo, quel confronto, quell’approccio critico che normalmente si attiva laddove ciò che riceviamo riguarda o richiama una qualche nostra esperienza personale.

 

È d’altra parte noto e studiato l’effetto che l’avvento dei social media ha prodotto nell’affermare e diffondere opinioni e «sentimenti» in rapporto diretto con le «masse»  di followers. E altrettanto conosciuta e indagata è la potenza con la quale la diffusione dei social media incide – su temi specifici – sull’immaginario collettivo, promuovendo e propagando (la cosiddetta «viralità») una condivisione di opinioni facilitata dal far leva tanto sull’assertività di sentenze e giudizi di facile assimilazione, quanto sugli aspetti emotivi e spettacolari che spesso le accompagnano o cui si riferiscono (e che spesso caratterizzano fenomeni religiosi e sociali, quali Islam, Migrazioni, Terrorismo).4 Come ben sanno i leader politici di ultima generazione (da Matteo Renzi a Donald Trump) che, per esempio, tramite Twitter quotidianamente dialogano direttamente con il «popolo» e gli elettori. Non appare quindi casuale che una nota indagine dedicata a «Cosa pensano gli europei di musulmani, ebrei e rom»,5 svolta nel 2014 da uno dei principali istituti di ricerche sociali statunitense, abbia rilevato che tra le 7 nazioni nelle quali si è svolta l’indagine quelle i cui cittadini esprimono le valutazioni più negative verso l’Islam (e prima è l’Italia) sono proprio le nazioni che hanno meno residenti musulmani; mentre al contrario Francia ed Inghilterra (quelle con molti più residenti musulmani rispetto alle altre) esprimono rispettivamente «più opinioni favorevoli […] e meno opinioni sfavorevoli» verso l’Islam.

 

Lo squilibrio tra l’abbondanza di informazioni, associato alla mancanza di approfondimenti e di dibattito tra posizioni differenti inerenti quelle stesse informazioni, fa quindi sì che i meccanismi di produzione e affermazione dei pregiudizi etnici e culturali in epoca di globalizzazione affondino le loro radici non tanto nella scarsità di informazioni (come avveniva generalmente in passato), ma al contrario in una conoscenza abbondante ma parziale e non elaborata – e spesso funzionale a fini ideologici – dell’Altro-da-noi. Quello che interessa a questo articolo rilevare è che ciò possa avvenire anche utilizzando lo strumento dell’analisi storica, o facendo riferimento ad avvenimenti di importante rilevanza sociale e impatto mediatico, cui ci si riferisce col fine implicito di confermare e rafforzare il mai estinto presupposto di superiorità della cultura Occidentale. D’altra parte, questa non è una prerogativa del solo Occidente: per esempio è noto quanto il cosiddetto «radicalismo islamico» motivi la propria avversione verso l’Occidente denunciando la supposta decadenza morale e la disgregazione sociale che la cultura occidentale produrrebbe, e la superiorità dei precetti morali e sociali contenuti in una «rivelazione» (il Corano) ultima in ordine di tempo e di diretta origine divina.6 

Partendo da questi presupposti, ritengo che la competenza interculturale possa trovare conforto, e maggiore efficacia, nell’affrontare questa complessità traendo le effettive conseguenze da quanto scritto cinquant’anni fa da un grande antropologo: «la semplice proclamazione dell’uguaglianza naturale fra tutti gli uomini e della fratellanza che deve unirli senza distinzione di razza e cultura, ha qualcosa di deludente poiché trascura una diversità di fatto, che si impone all’osservazione» (Strauss, 1967, p. 106). A tal fine è certamente utile quell’approccio interculturale che include nel proprio orizzonte e nella propria efficacia polemica la capacità di dialogare con l’attualità, evitando di centrarsi e autorappresentarsi soprattutto sulla ripetizione del mantra «siamo tutti uguali/abbiamo tutti gli stessi diritti». O sull’evocare un multiculturalismo stereotipato, o lo spesso altrettanto ideologico «accogliamoli tutti», come la soluzione di una complessità sociale e culturale resa ancor più acuta e dolente dalle recenti ondate migratorie.7 

 

Ma occuparsi di attualità significa necessariamente fare i conti con la Storia: l’attualità è piena di Storia. Il Presente è ricco di Passato.

O per meglio dire: di interpretazioni del passato: «Organizzare il passato in funzione del presente: tale si potrebbe definire la funzione sociale della storia» (Febvre, 1966, p. 56). Questa l’incontestata lezione di uno dei fondatori della nouvelle histoire francese, che ha profondamente strutturato la ricerca storica contemporanea: «L’uomo non si ricorda del passato, lo ricostruisce sempre […] e solo attraverso il presente, sempre, conosce, interpreta il passato» (Febvre, 1977, pp. 80-81). C’è molto da fare quindi, qui, per la competenza interculturale, che non può esimersi dall’includere la prospettiva storica e le relazioni tra le varie civiltà che abitano la Storia, nella propria capacità di analisi ed elaborazione. «La storia, dunque, come luogo e tempo che contribuiscono a dare senso e significato di apertura e di possibilità al soggetto e ai rapporti con gli altri» (Contini, 2002, p. 5). Storia che determina o rende possibile ai vari «portatori di interesse» (Bauman, 2003, p. 121) un’attribuzione di significato al passato funzionale alle proprie percezioni del presente, rendendo così disponibile una risorsa ideologica da utilizzare nell’attualità. Storia intesa come elaborazione di eventi fondanti il criterio di identità delle persone e della collettività.

Storia come esito dell’azione congiunta di memoria e di oblio: «La memoria è, infatti […], una forma di “selezione sociale del ricordo”, non semplice registrazione fotografica degli eventi trascorsi, ma loro “costruzione sociale” […] Neppure la storiografia che si pretende “scientifica” è esente da ciò che gli stessi storici chiamano “presentismo”, ossia dalla tendenza ad interpretare le configurazioni culturali del passato alla luce della situazione attuale […] la memoria – sia che essa si costituisca in forma di discorso mitico, sia che si organizzi in forma di discorso storiografico – ha sempre e comunque lo stesso significato e la stessa funzione: offrire una rappresentazione dotata di senso del proprio presente» (Fabietti e Matera, 1999, pp. 10-13). Se assumiamo che l’obiettivo ideale cui la competenza interculturale può contribuire è costituito dal passaggio «dal regno della violenza a quello della non violenza», che Antonio Genovese (2003) richiama alla fine di un suo libro dedicato alla pedagogia interculturale, risulta allora determinante che chi si occupa di interculturalità ponga tra i suoi campi d’azione anche l’interpretazione storica e l’utilizzo che ne viene fatto nell’attualità contemporanea. A tale aspetto – e non alle Primavere Arabe di per sé – è dedicato questo articolo.

 

Medio oriente e Nord Africa, 2011-2016

A sei anni dal loro inizio, le cosiddette Primavere Arabe sembrano costituire già un fatto storico,  cioè eventi che possono essere valutati alla luce di quanto già accaduto. Se usiamo il solito motore di ricerca, digitando primavera araba in italiano compaiono 259.000 risultati; se la ricerca la facciamo in inglese (arab spring) ne compaiono 6,5 milioni. Insomma: se ne è parlato, è certamente una questione di attualità. Non sono pochi i commentatori che la affrontano consapevoli della complessità del tema, cercando di capire più che di giudicare. Ma capita frequentemente anche il contrario: se digitate fallimento primavere arabe vi compaiono circa 7.000 voci per la frase esatta, e circa 170.000 senza vincoli alla frase esatta ma con documenti che contengono le 3 parole; facendo lo stesso in inglese ne compaiono circa 8,1 milioni. Se teniamo fede all’assunto che solo attraverso il presente si conosce e interpreta il passato e che l’interpretazione che diamo dei fatti storici che riguardano gli altri tende a rispecchiare il significato implicito che diamo al nostro rapporto tra noi e loro, abbiamo le condizioni per azzardare l’ipotesi – in fondo non particolarmente innovativa – che molte interpretazioni delle Primavere Arabe siano condizionate dal pregiudizio negativo relativo al mondo arabo/musulmano presente nelle società occidentali.8

Pregiudizio che appare ben insediato nell’immaginario collettivo delle popolazioni occidentali: «L’islamofobia è purtroppo passata dai margini alla corrente principale della società americana [TdA]».9 Ha certamente contribuito a questa tendenza l’aumento considerevole dei migranti arrivati in Italia e in Europa negli ultimi anni, oggetto in generale di una diffusa diffidenza spesso tradottasi in ostilità rivolta, in particolare, verso coloro che provengono da nazioni a maggioranza musulmana (aspetto recentemente condiviso dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e da lui formalizzato in un atto legale). L’evidenziazione del possibile rischio migranti-terrorismo, e la spinta che ciò ha dato alla crescita dei partiti politici cosiddetti populisti e nazionalisti, ha a sua volta – in un circolo vizioso in piena attività – contribuito all’aumento di visibilità di chi propone approcci anti immigrati/Islam e della loro capacità di creare consenso, come evidenziato dai candidati con maggiori chance di successo alle elezioni in programma in alcuni stati europei (Francia, Olanda), e confermato da uno dei più recenti studi europei in merito:10 «Questa crisi [la “questione migratoria”], nelle sua premesse così come nel suo sviluppo, sembra incidere sull’opinione pubblica europea e contribuire al rafforzamento politico ed elettorale del nazional-populismo in Europa (TdA)».11 

 

Questo è quindi il contesto nel quale si è collocata e si colloca una delle questioni che maggiormente ricorrono a proposito di Islam, ampiamente dibattuta durante le Primavere Arabe, e cioè: «il mondo arabo-musulmano è compatibile con la democrazia?».12 «È dall'11 settembre 2001 che la domanda se l'Islam e la democrazia siano compatibili è divenuta di senso comune» scrive Renzo Guolo (2007) nella presentazione del suo libro del 2007. Questa domanda riflette quel senso di sorpresa e a volte vera a propria diffidenza con la quale le Primavere Arabe sono state accolte in Occidente, nonostante che le ragioni che le avevano scatenate si richiamassero esplicitamente ai «nostri» valori. L’ipotesi che il pregiudizio antislamico incida sulle interpretazioni delle Primavere Arabe allora si completa nel modo seguente: molti osservatori hanno commentato con soddisfazione l’eventuale fallimento dei movimenti sociali che – partiti dalla Tunisia e dall’Egitto – sembravano in grado di cambiare le società dei paesi arabi. La constatazione che in tali paesi si è invece rapidamente passati dalla primavera all’autunno, per giungere ad un inverno ove le speranze nate con le rivolte popolari sono state gelate (con poche eccezioni: e qui in genere si nomina la Tunisia)13 dall’affermarsi di integralismo e/o negazione della libertà sognata, ha permesso non solo di confermare, ma anzi di rafforzare il giudizio negativo verso un mondo considerato culturalmente statico, arretrato e refrattario alla democrazia.

L’utilizzo delle Primavere Arabe appare importante per chi propone o condivide questo giudizio, in quanto permette di validarlo alla luce di una verità storica che appare inconfutabile, basata su dati oggettivi, e – siccome avviene qui ed ora – verificabile da chiunque. Risulterebbe quindi semplice per chi è portatore di questo punto di vista il poter poi utilizzare questo approccio per confermare quell’altra serie di domande retoriche (la cui risposta è cioè già insita nella domanda stessa) che fanno parte dello stesso bagaglio culturale, anch’esse riferite a dei presunti dati di fatto e che un cittadino occidentale ha mediamente sentito più di una volta: «ma quanti sono i paesi a maggioranza islamica a praticare la democrazia?», oppure »Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente». Già, quanti sono, ed è proprio così? E quanto incide l’Islam, e quanto invece altre possibili cause? Quante volte chi ascolta simili affermazioni o domande può accedere ad una riflessione più approfondita, e meno funzionale al suddividere il mondo in buoni e cattivi?

 

Dal punto di vista del ricercatore interculturale non è prioritario rispondere subito a queste domande. È invece ben più interessante interrogare le domande stesse, constatando che spesso nelle valutazioni delle Primavere Arabe si nascondono dei veri e propri giacimenti di significati interculturali. Tra essi troviamo anche quelli che derivano da un presupposto che in Italia ha trovato tanti interpreti e ampia visibilità, e in Oriana Fallaci il proprio campione, capace di tradurlo in una mirabile sintesi: «L'Islam Moderato non esiste. E non esiste perché non esiste qualcosa che si chiama Islam Buono e Islam Cattivo. Esiste l'Islam e basta».14 Sono passati oltre 11 anni da questa dichiarazione, tutt’altro che estemporanea o di scarso impatto e visibilità, dal momento che riprendeva concetti da lei molto chiaramente espressi in numerosi articoli, scritti a partire dal 29 Settembre 2001 sulle prime pagine del quotidiano più venduto in Italia, e rielaborati in un libro – «la Rabbia e l’Orgoglio» – venduto in milioni di copie in tutto il mondo (Rizzoli, 28 edizioni).15

Che quei concetti non siano stati dimenticati, ma si siano radicati in una parte non marginale della nostra cultura, lo prova il fatto che vengono periodicamente utilizzati – magari in forme meno aggressive, o col punto interrogativo del dubbio – per commentare fatti di cronaca. Lo dimostrano due tra i giornalisti in assoluto più presenti nelle televisioni italiane: Maurizio Belpietro e Alessandro Sallusti. Il primo nell’editoriale del 14 Novembre 2015 sul quotidiano che allora dirigeva – Libero – titolò a tutta pagina Bastardi islamici: vero è che era all’indomani dei sanguinosissimi attentati di Parigi, ma nella discussione che ne seguì oltre a forti critiche ci furono tante espressioni di entusiasmo e condivisione (tra i quali quello del presidente della Regione Lombardia ed ex Ministro dell’Interno, Roberto Maroni); il secondo, direttore de Il Giornale (quotidiano che vende oltre 100.000 copie), titolò il suo commento del 19/3/2016 Molenbeek prova che non esiste l’Islam moderato; sul sito di quest’ultimo ricercando la frase «islam moderato non esiste» si ritrovano centinaia di articoli o riferimenti. Mentre cercando la stessa frase su internet ne compaiono 5.400, tra i quali anche quelli di quotidiani o autori meno «posizionati» rispetto a quelli prima citati.16 

 

Ecco quindi che appare in chiaro uno degli approcci che più contribuisce a diffondere una valutazione negativa delle Primavere Arabe. Sono fallite perché il mondo arabo-musulmano ha effettivamente problemi con la democrazia, con la modernità, con i valori base dell’Occidente. Valutazione che quasi automaticamente si traduce in una sottile – quando non esplicita e rivendicata – valutazione negativa (o perlomeno scettica e diffidente) dell’insieme dell’universo arabo/musulmano. Compiendo così il passaggio che permette di cogliere l’obiettivo di fondo: sembra che ci si limiti al commentare un fatto storico (le Primavere Arabe), ma di fatto si offre – senza doverlo necessariamente esplicitare – agli spettatori una valutazione di una intera civiltà (l’Islam). Va oltre le potenzialità di questo articolo poter valutare quanto pesi e sia diffusa nell’immaginario collettivo questo approccio, ma mi sbilancio ad affermare che, causa anche la forte concomitanza con fatti di cronaca di grande impatto e visibilità che riguardano l’Islam (terrorismo, migrazioni, negazione di diritti civili) esso non sembra affatto avere un effetto marginale, anzi. Non mi interessa entrare qui in un dialogo diretto con questi approcci e valutazioni; tantomeno commentare le motivazioni in base alle quali un versante di commentatori dei media e della politica si è affrettato a dichiarare – soprattutto dal 2013 in poi – il fallimento delle Primavere Arabe.

Per chi volesse approfondire la conoscenza del mondo arabo-musulmano non mancano pubblicazioni e opportunità di approfondimento (segnalo, tra i tanti, il recentissimo saggio di Carole Hillebrand),17 e io me ne sono occupato sia in pubblicazioni (Dal Fiume, 2005), che su questa rivista (Dal Fiume, 2012). Quello che mi interessa qui è evidenziare l’assoluta parzialità del metodo utilizzato per giungere a certe conclusioni. Non sono quindi le conclusioni in sé che mi interessa confutare, e questo articolo non si pone il problema di valutare le Primavere Arabe. Il mio bersaglio polemico è l’utilizzo etnocentrico della Storia, quella distorsione procurata alla valutazione dei fatti e del passato, funzionale a giustificare nel presente una lettura gerarchica delle relazioni noi/loro, della quale è a mio avviso buon esempio la domanda/considerazione sulla effettiva compatibilità tra mondo arabo-islamico e democrazia.18 

 

Valutazione dei fatti dove alla Storia viene paradossalmente sottratto il fattore temporale, così da eternizzare il presente e le sue gerarchie, e poter – con la serenità di chi prende atto di un dato di fatto – affermare che le differenze visibili nel mondo di oggi in termini di qualità sociale, diritti e benessere economico, conseguono e riflettono una naturale e permanente differenza tra le civiltà. E che di conseguenza la preminenza geo-politica ed economica dell’Occidente (anzi: degli Stati Uniti, secondo l’entourage culturale e politico che ha portato Donald Trump alla presidenza degli USA) in fondo in fondo è legittimata – e attenzione perché tale convinzione può albergare in ognuno di noi – da una superiorità culturale della nostra civiltà dimostrata dalla Storia e confermata dall’attualità. Non è un tema questo che dovrebbe attirare l’interesse interculturale, come il miele le api? La competenza interculturale non può tralasciare questi aspetti, così come il marinaio per riempire le sue reti non può trascurare le condizioni del mare sul quale naviga.

E così mentre capita che noi (Occidente) parliamo e valutiamo loro (mondo arabo-musulmano) per riaffermare la permanenza delle gerarchie tra le civiltà, e confermare alla luce di ciò la nostra supremazia, io racconterò una piccola storia che ci riguarda da vicino, per ricordare che ogni attribuzione di valore eterno alle culture/civiltà è arbitrario, che la civiltà è un processo, che la Storia non fallisce.

 

Francia, 1789-1794

È il pomeriggio del 24 Marzo 1794, e noi siamo perplessi, a Parigi. Avevamo assistito con piacevole sorpresa e poi partecipato con convinzione ai primi moti che – appellandosi ai principi e alle visioni sociali propugnate con forza dai philosophes – hanno messo in discussione l’assetto sociale francese, proponendosi l’abbattimento di strutture sociali che sembravano eterne e inamovibili, fondate sull’ordine naturale delle cose. Un «ordine naturale» che non solo l’aristocrazia al potere, ma anche la grande maggioranza del clero (e in particolare i suoi vertici) affermava e rivendicava di origine divina, in quanto coerente con i principi religiosi, e confermato dai testi sacri. Con convinzione abbiamo quindi aderito alla spinta rivoluzionaria che, dopo aver abbattuto re e regine, ha in pochissimo tempo posto le basi di un ordine sociale completamente diverso, basato sulla democrazia, la laicità e la partecipazione popolare. Non abbiamo dato retta ai tanti critici che denunciavano che l’ordine sociale infranto dalla rivoluzione era l’unico in grado di tutelare la società dal caos e dalla violenza, che la separazione tra chiesa e stato contraddiceva quanto scritto nei testi sacri, e che invece di promuovere libertà e progresso avrebbe portato decadenza morale, caos e violenza. E che in definitiva al popolo non può essere assegnato alcun compito di governo.

Ma ora, vedendo il boia Sanson sollevare con gesto automatico, davanti alla ghigliottina, la testa mozzata di Antoine-François Momoro, riviviamo con un brivido gli avvenimenti degli ultimi tempi, e in particolare di un ultimo anno che sembra bruciare ancora più in fretta dei 3 concitatissimi anni che l’anno preceduto… ma in direzione contraria e con ancora più fretta! Muore qui oggi in Place de la Révolution l’uomo che ha portato a formulazione finale il motto Liberté, Egalité, Fraternitè e che ha convinto il sindaco di Parigi Jean-Nicolas Pache ad iscrivere per la prima volta sugli edifici pubblici della città queste tre parole che volevamo immortali. Ma oggi l’uomo che le ha portate sui muri della nostra città muore per volontà e decisione proprio di chi – Maximilien de Robespierre – in un suo infiammato discorso di poco più di 3 anni fa per la prima volta aveva pronunciato e rivendicato quelle 3 parole. Siamo confusi e incerti, e alle prossime elezioni che si annunciano non sappiamo se affidarci ai Club dei Montagnardi che assicurano di stabilizzare la Rivoluzione grazie alla loro capacità di reprimere il disordine sociale, e alla sospensione dei diritti civili; oppure credere a quei circoli moderati che rivendicano che l’unica salvezza della Rivoluzione sta nel ridare peso ai valori morali e religiosi calpestati negli ultimi anni, in particolare dall’anno scorso. La nostra perplessità è aumentata dal fatto che pochi tra coloro che oggi si propongono come leader rivoluzionari erano con noi in strada a manifestare nei gloriosi giorni del 1789, mentre molti di quelli che c’erano sono in prigione, o fuggiti, o uccisi dallo Stato in quanto accusati di essere controrivoluzionari.

 

Passano 5 giorni e ci sconvolge la notizia della morte – in prigione, arrestato mentre cercava di scappare da Parigi, dopo essersi nascosto per sfuggire alla condanna a morte – del padre più nobile che la rivoluzione ancora vedeva in vita, quel Nicolas de Condorcet principale autore della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del progetto di Costituzione, massimo teorico e propugnatore dell’educazione pubblica e laica e di tanto altro, erede principale di un secolo di filosofia illuminista, parlamentare rispettato, coordinatore dei principali comitati rivoluzionari, attivissimo fin da prima del 1789 e fino a poche settimane fa riverito da tutti… La sua morte appare a molti come un punto di non ritorno nella direzione della negazione dei principi rivoluzionari, il simbolo di un fallimento storico e di un potere che sembra sempre più votato a mantenere se stesso, pur cambiando volti e nomi.

Tutto sembra andare così terribilmente in fretta, niente sembra perdurare, quanto accade viene rivendicato come rivoluzionario e in grado di costruire una nuova società, salvo sollevare immediate divisioni e violenze, e una nuova veloce reazione che rimette tutto in discussione. Il senso di instabilità si approfondisce quando il 10 Maggio 1794 anche il sindaco di Parigi – colui che ha fatto incidere quelle 3 parole Liberté, Egalité, Fraternitésui muri dei tribunali che lo stanno giudicando – viene arrestato come controrivoluzionario, assieme a tutta la sua famiglia. E il disorientamento diventa sgomento quando il 28 Luglio 1794 torniamo in Place de la Révolution per assistere all’esecuzione di Robespierre, colui che ha rovesciato tutto e tutti per incarnare in sé stesso la rivoluzione, novello monarca assoluto… fino a che lui stesso non è stato spodestato. Allora tutto non solo sembra definitivamente finito, ma la Rivoluzione sembra aver confermato i peggiori pregiudizi che si erano scatenati contro di lei  e i 5 anni trascorsi sembrano seppellire anche per il futuro qualsiasi aspirazione a poter vedere fiorire quella Primavera Illuminista che nelle manifestazioni di piazza – solo 5 anni fa! – si proponeva come l’avvento di un ineluttabile quanto definitivo cambio epocale.

 

Oggi, 5 anni dopo, di ineluttabile sembra rimanga solo il fallimento. E non a caso questo termine appare sulle gazzette e sui giornali di tutta Europa, ovunque si ritrova il titolo Il fallimento della Rivoluzione Francese, e in numerosi articoli si può facilmente cogliere la soddisfazione dell’autore nell’evidenziare l’addio ad una Primavera Francese che «dopo 5 anni è già un fallimento. Addio alle speranze di democrazia e diritti»; altri richiamano nei titoli quanto la Primavera Rivoluzionaria abbia percorso – come si aspettava chi ne diffidava – il passaggio «dalla primavera all’autunno, fino al lungo e terribile inverno: le speranze nate con le rivolte popolari […] si sono presto tramutate in un incubo fatto di integralismo e violenze. […] La libertà sognata quasi mai è diventata realtà».19 

Altri cinque anni ed ecco la conferma di tutto ciò: la Francia accetta con rassegnazione il colpo di stato di Napoleone, che dopo altri 5 anni (1804) si nominerà imperatore. Il risultato è limpido, incontestabile, e in grado di affossare qualsiasi aspirazione rivoluzionaria, qualsiasi Primavera: in 15 anni la Francia è passata dall’abolizione della Monarchia alla proclamazione dell’Impero.

 

Quale migliore e più forte, oggettiva e inoppugnabile dimostrazione ci può essere del fatto che la rottura dell’ «ordine divino» – dove a regnare sono Dio e Re  produce soltanto caos e violenza? Quale migliore occasione per i regimi monarchici e aristocratici europei per vedere confermata la superiorità del proprio modello sociale e della propria civiltà, e quindi del diritto di rivendicare l’incompatibilità tra le idee illuministe di partecipazione e uguaglianza popolare, e il buon governo e l’ordine sociale? L’Europa intera deliberatamente abbandona quella scritta Liberté, Egalité, Fraternitè,prontamente scalpellata dai muri, rimossa dai documenti, dimenticata, negata. La morte definitiva della Rivoluzione Francese appare ai contemporanei assoluta e irreversibile causa l’affermarsi di una concezione della Storia che – basandosi sull’incontrovertibilità degli eventi storici e la forza dell’oggettività dei fatti – smentiva quella degli illuministi, fondata sulla concezione della «libertà naturale» degli esseri umani, sulla sovranità popolare, sull’educazione come leva principale del progresso sociale. I teorici della Restaurazione e del ritorno al «principio di autorità» faticano poco a ridare forza pervasiva e capacità di convinzione al fatto che perseguire l'eliminazione della religione conduce alla distruzione della società, che «dovunque il piccolissimo numero ha sempre condotto il grande»,20 e che «ogni forma particolare di governo è un’opera divina, così come la sovranità in generale» (De Maistre, 1821). Niente di più semplice allora che riaffermare l’eternità di concezioni per le quali è diritto legittimo dell'aristocrazia l'assumere la guida delle nazioni.

 

Noi, se fossimo stati lì, molto probabilmente avremmo dato ragione a chi sosteneva queste posizioni. Perché la loro verità appariva evidente, avvallata dalla Storia che osservavamo accadere sotto i nostri occhi. Perché i ragionamenti di chi propugnava queste tesi ci sarebbero sembrati evidenti come è evidente che sia il sole a ruotare intorno alla terra. Perché il fallimento storico della Rivoluzione francese comportava il poter argomentare con un maggior grado di efficacia che la democrazia non è compatibile con l’ordine stabilito dai testi sacri di riferimento dell’élite e della cultura diffusa in Europa. Perché se il tempo si fosse fermato in quei momenti, in quegli anni, così sarebbe effettivamente stato.

Ma la Storia non è il Presente. E cosa costruisce il futuro non è così facilmente identificabile e intercettabile oggi. Oggi sappiamo che il passaggio da Luigi XVI a Napoleone I non ha costituito la fine della Storia e della Rivoluzione Francese. Perché ce lo dimentichiamo quando commentiamo il passaggio da Hosni Mubarak (2011) a Mohamed Morsi (2012) e poi a Abd al-Fattah al-Sisi (2013), nell’Egitto contemporaneo? E ancor più quando diamo un significato a quanto accaduto nei paesi arabi negli ultimi 5 anni? Eppure proprio la nostra Storia dovrebbe indicarci cautela nel trarre giudizi definitivi, e lo studio dei percorsi tramite i quali i nostri valori si sono affermati e appaiono oggi scontati e irreversibili, dovrebbe insegnarci che i processi storici e il progresso non avvengono con percorsi lineari, ove le relazioni tra cause e effetti sono dirette e identificabili nel momento stesso nel quale i fatti avvengono. Liberté, Egalité, Fraternité: il successo storico di queste 3 parole – oggi così profondamente radicate nella percezione che tutti noi occidentali abbiamo di noi stessi e della nostra cultura – ce lo dimostra in modo altrettanto lampante di quanto ai contemporanei della Rivoluzione Francese appariva lampante il loro fallimento e il loro abbandono.

 

E dimostra la complessità dei percorsi che determinano i cambiamenti sociali, e la doverosa cautela che occorre tenere nel trarre conclusioni laddove si valutano eventi complessi, soprattutto quando se ne ignora la profondità. Ecco cosa accadde a Libertè, Egalité, Fraternité: dopo essere state negate e cancellate, riappaiono dopo diversi decenni, non a caso durante i moti delle Rivoluzioni del 1848, anche se per pochissimi anni e con una caratterizzazione religiosa che non avevano affatto durante la Rivoluzione di fine ‘700. Di nuovo cancellate e evitate nel Secondo Impero (1852-1870), vengono riportate in auge durante la Terza Repubblica (La Comune di Parigi), fino a tornare finalmente ad essere scolpite sulle fronti degli edifici pubblici francesi in occasione delle celebrazioni del 14 Luglio 1880. Quasi un secolo dopo l’avvio della Rivoluzione e 86 anni dopo l’esecuzione del povero Momoro! E vengono riconosciute come motto nazionale francese nelle Costituzioni del 1948 e del 1956. Voi, tornando a casa da Place de la Révolution il 24 marzo, o il 10 Maggio, o il 28 Luglio 1794, lo avreste detto?

 

Passato e presente: il fluire del tempo

Non è certo mia intenzione fare un paragone tra Rivoluzione Francese e Primavere Arabe perché semplicemente non è possibile farlo. Il primo evento ha avuto un decorso che gli ha permesso di poter esprimere le sue «potenzialità» e valutarne gli effetti; il secondo è ancora parte dell’attualità. So che qualcuno potrebbe dire che i due eventi non sono paragonabili per altri motivi, più di merito, e che quindi non c’è ragione di aspettare. Per esempio che i 600.000 morti stimati (su una popolazione stimata in 28 milioni) e l’avvento di Napoleone non hanno demolito le principali conquiste e i profondi cambiamenti istituzionali e culturali che la Rivoluzione ha apportato alla Francia. Nonostante tutto si è avviata con successo l’eliminazione di un secolare sistema di potere aristocratico. E anzi proprio l’avvento di Napoleone ha disseminato in tutta Europa, dandogli autorevolezza e rendendoli irreversibili, molti effetti della Rivoluzione, arrivando ad abolire le proprietà ed i diritti nobiliari fin nelle più sperdute valli alpine e ad ispirare questi cambiamenti anche molto più lontano. E è vero che la Restaurazione post-napoleonica non ha potuto (e in parte non ha neanche voluto) riportare completamente indietro le società europee a prima della Rivoluzione. Se il motto rivoluzionario è stato cancellato dai muri, nessuno ha potuto cancellare dalle menti delle persone quelle ambizioni di cambiamento e nessuna istituzione ha poi più potuto ignorarle completamente. Al contrario le Primavere Arabe non appaiono aver modificato quasi nulla, poco hanno cambiato, quasi nulla è rimasto (e anche per questo molti studiosi che se ne sono occupati hanno utilizzato il termine «rivolta», invece che «rivoluzione»). Tunisia a parte (che dal punto di vista dei diritti civili era comunemente ritenuta essere già in una condizione migliore rispetto agli altri paesi arabi) nazioni come Egitto e Libia appaiono in condizioni più violente e disgraziate di prima (per non parlare della Siria).

 

Si, tutto vero. Ma un eventuale ragionamento di questo tipo ancora denuncia un approccio superficiale e etnico alla Storia che colpevolmente dimentica la dimensione temporale e la complessità dei rapporti causa/effetto. La Rivoluzione Francese è stata il prodotto di quello che non a caso si chiama il secolo dei Lumi (cfr, Israel, 2015): 100 anni di lavoro culturale, sociale e tentativi istituzionali che hanno lentamente scavato e creato le condizioni affinché la rivolta di una parte (assai minoritaria) dei cittadini parigini potesse assumere quella enorme rilevanza e capacità di incidenza tale da farla diventare una vera rivoluzione. Capace di coniugare – come raramente era prima avvenuto nella storia umana – la radicalità del cambiamento con il consenso diffuso. E gravemente dimentica – l’approccio di cui sopra – i quasi due secoli (il Petition of Right fatto firmare a Carlo I di Inghilterra è del 1628) di tensioni costituzionali e repubblicane che avevano agitato e già modificato parte dell’Europa prima della presa della Bastiglia, fino ad arrivare alla Rivoluzione Americana. E quindi alla Costituzione firmata a Philadelphia nel 1787, la quale costituì – pur essendo considerata insufficiente da Condorcet e dai leader rivoluzionari francesi – un fondamentale punto di riferimento per l’elaborazione della Costituzione uscita dalla Rivoluzione Francese.

 

Chi può escludere che domani il processo democratico faticosamente avviatosi in Tunisia acquisisca lo stesso riferimento e rilevanza per il mondo arabo/musulmano? Invece di insistere nei sottintesi insiti nella domanda «il mondo arabo-musulmano è compatibile con la democrazia?», la domanda giusta da farsi se vogliamo veramente affrontare in modo non pregiudizievole o ideologico la complessità del rapporto civiltà-culture-democrazia dovrebbe essere: «Ma perché nell’insieme degli Stati a maggioranza mussulmana la democrazia fatica ad affermarsi?». Potremmo allora evolvere da una domanda posta più per confermare le percezioni che abbiamo dell’Altro-da-noi, ad un’altra che prima di giudicare si pone l’obiettivo di analizzare e capire. Scopriremo che l’approfondire le vicende che hanno portato, per esempio, il Medio Oriente ad essere come lo conosciamo oggi porta da un lato a percorrere un sentiero metodologico contrario a quello che affronta il passato partendo dal presente; dall’altro a conoscenze e possibili conclusioni affatto scontate, e alla scoperta della non casuale diffusa ignoranza e disinformazione in merito. Non costituendo questo argomento l’obiettivo di questo articolo, invito chi eventualmente volesse avviarsi in questo percorso a dotarsi di tempo e curiosità, perché avrebbe molto da ascoltare o leggere,21 ammesso però che esca dai circuiti dei classici mass media della stampa e televisione, assai poco interessati a questo tipo di approfondimenti. Ne varrebbe la pena, si potrebbero incontrare interessanti sorprese.

Io qui voglio invece occuparmi di altre domande: c’è una differenza di metodo e di approccio nelle rappresentazioni che diamo a processi storici a seconda che coinvolgano Noi o Loro? Se c’è, dipende principalmente dalle differenze intrinseche ai fatti analizzati (perché la Rivoluzione Francese è differente dalle Primavere Arabe), o anche dallo sguardo che li osserva? E da cosa può dipendere tale eventuale differenza di metodo e di approccio? È per esempio da considerarsi come neutro e basato solo sull’analisi dei fatti il giudizio espresso già nel 2013 da un giornalista considerato profondo conoscitore del mondo medio-orientale: «la Primavera araba è finita»?22 

 

Oppure rappresenta il segno che il pregiudizio etnico contamina anche osservatori e divulgatori esperti, forse molto più in grado di incidere sull’immaginario collettivo, rispetto agli studi seri e metodologicamente accurati?

Pongo questi quesiti perché penso che abbiano molto a che fare con le questioni interculturali, le quali costituiscono il fulcro di questo articolo, il cui oggetto non è costituito dalla semplice ricostruzione e comparazione di eventi storici. Le due vicende che abbiamo rappresentato nelle pagine precedenti – Rivoluzione Francese e Primavere Arabe – costituiscono solo un esempio del rischio dell’utilizzo di un doppio regime che si attiva (a tutte le latitudini) laddove si parli di noi o di loro. E la dimostrazione che questo doppio regime può applicarsi non soltanto all’attualità che incontriamo strada facendo, ma anche al passato, alla Storia. È ciò solo responsabilità della generica azione dei pregiudizi? O è invece possibile raffinare l’analisi, identificando meglio le cause, e potendo quindi aspirare ad aumentare il tasso di consapevolezza dei limiti, e degli errori potenziali, sempre inevitabilmente in agguato laddove ci arrischiamo a pesare fatti storici complessi e in divenire come le Primavere Arabe? Affrontare tale quesito potrebbe dare un contributo significativo ad attrezzare meglio la competenza interculturale laddove debba confrontarsi con valutazioni dell’Altro-da-noi (o più specificatamente del mondo arabo-musulmano) derivanti dall’approcciarsi ad eventi storici di particolare rilevanza. Se si procede in questa direzione, è allora a mio avviso possibile identificare le due principali cause che nel caso delle Primavere Arabe, e di riflesso al mondo arabo-musulmano, possono attivare questo «doppio regime». La prima causa è banale, ma macroscopica: l’ignoranza. Ma attenzione: questo tipo di ignoranza non è prodotta dalla classica mancanza di informazioni.

 

Ma da quella sorta di metodo richiamato all’inizio di questo articolo: non ho bisogno di conoscere veramente l’altro per esprimere un giudizio su di lui/lei/loro, perché dentro di me ho già quella immagine costruita dalla quantità quotidiana di informazioni che me ne hanno parlato in questi anni. E dei fatti – non delle opinioni, ma fatti – cui queste informazioni sono associati. L’insieme tra informazioni e fatti produce un «sapere» che non necessita di verifiche o conferme, in quanto mi è validato socialmente da una parte del mondo che mi sta attorno, e dalle informazioni che filtro. Questo approccio– che sostituisce la conoscenza con la percezione – è forse causato dalla mancanza di informazioni, mia o di chi mi sta attorno? No, anzi è proprio la massa di informazioni cui quotidianamente accedo che mi permette di poter assumere questo atteggiamento, dove il problema non è l’avere un approccio giudicante (è naturale che si tenda a giudicare, soprattutto di fronte ad eventi che hanno una forte portata emotiva), quanto farlo senza avvertire la consapevolezza della complessità di quello che sto valutando e la possibilità di accedere ad informazioni o confronti che facilitino il contatto con posizioni differenti. Questo è l’atteggiamento che permette ad affermazioni macroscopicamente false e insostenibili di diventare invece luoghi comuni che informano (assieme ad altri fattori) l’immaginario collettivo del quale faccio parte. Per esempio l’immagine di un Islam rappresentato come un monolite («esiste un solo Islam»), nonostante l’evidenza di come sia soprattutto al suo interno che si sta svolgendo una lotta dura e sanguinosa per la supremazia, non solo politico-economica, ma anche culturale e strategica.

Così come la rappresentazione di una comunità immobile e ferma, «l’Islam, rigorosamente radicata negli stessi costumi di 1.400 anni fa»,23 nonostante i grandi cambiamenti avvenuti e i molti secoli nei quali quella comunità rappresentava il «primo mondo» e noi il «terzo».

 

Oppure di una cultura fermamente antioccidentale e contraria ai nostri valori (aspetto in parte vero per certi versi e in certe zone in cui  l’Islam viene praticato),24 nonostante che il Medio Oriente da metà del XIX secolo in poi sia stato scosso (anche causa la crisi dell’Impero Turco) da profondi fremiti di modernizzazione, che presero esplicitamente a modello – dall’educazione all’abbigliamento, dalla legislazione agli armamenti, dall’architettura alla letteratura – l’Europa e le nostre costituzioni politiche. E siccome anche i dettagli sono importanti per dare credibilità all’immagine dell’altro che si vuole denigrare, ecco che l’approccio che contrasta o vieta la musica in quanto manifestazione del demonio o dell’Occidente, praticato da alcuni gruppi di musulmani aderenti alla corrente salafita, diventa una plausibile – anche perché trova spazio nella prima pagina del principale giornale italiano25 – rappresentazione dell’intero Islam, censurando l’evidenza dell’enorme successo di cantanti come Haifa Wehbe o di manifestazioni come Arab Idol,26 e il fatto che per un’altra corrente (storicamente maggioritaria in termini quantitativi: i sufi) la musica sia un’influenza divina che avvicina il cuore dei credenti a Dio, quindi da secoli suonata al tramonto davanti alle tombe dei «santi» musulmani (quelle stesse tombe in certi casi fatte saltare in aria dagli integralisti islamici). Allo stesso modo si associa la lapidazione o l’infibulazione con l’Islam, laddove nel Corano non se ne fa assolutamente riferimento. E sempre per quella distorsione cognitiva favorita da un approccio etnico alla Storia, casualmente ci si dimentica che per 130 anni l’Occidente ha colonizzato quasi tutto il Medio Oriente, giungendo a negare esplicitamente (vedi l’accordo segreto nel 1917 Sykes-Picot tra Inghilterra e Francia) il diritto all’autodeterminazione di quei popoli, negandogli quindi volutamente e per i propri interessi (tra i quali il petrolio) l’accesso alla democrazia.

 

La verità è che quando in Occidente si tratta di analizzare o rappresentare l’Islam, soprattutto a livello di mezzi di comunicazione di massa, viene frequentemente abbandonato l’utilizzo delle metodologia «scientifica», sociologica o storica che sia, preferendosi adottare l’immagine riduttiva dell’Islam come massa integrata e indistinta, e già per questo secondo noi Occidentali – che facciamo della valorizzazione dell’individuo/persona il centro dell’universo – caratterizzata da arretratezza e percepita con diffidenza. È un trucco antico, vecchio come il mondo. Ma accetterebbe la massa dei cristiani di essere rappresentata solo o soprattutto dai Mormoni, dai testimoni di Geova, dagli Amish che vivono ancora come nell’Europa del XVIII secolo? Estremizzando un po', il doppio regime che ho cercato di evidenziare relativamente ai casi ella Rivoluzione Francese e delle Primavere Arabe, in fondo, consiste soprattutto in questo: per giudicare le Primavere Arabe ed il mondo arabo-musulmano a qualcuno viene spontaneo utilizzare solo alcune parti del quadro per rappresentare il tutto (che per altro, giova ricordarlo, consiste in oltre 1,6 miliardi di persone, in maggioranza non arabe e residenti in Asia), dimenticandosi di considerare la lezione metodologica che emerge  – un esempio tra i tanti – dal poter osservare gli effetti nel tempo della Rivoluzione Francese, dichiarata morta e sepolta dai contemporanei, e invece capace di una pervasività culturale e influenza politica assolutamente insospettabile per i contemporanei.

A tutto ciò si aggiunge la seconda causa, che tocca aspetti più profondi, e che non riguarda specificatamente il mondo arabo-musulmano, ma qualsiasi discriminazione di tipo etnico-culturale applicata alla Storia: la sottrazione del fattore tempo. «Il discorso razzista si costituisce cioè sulla base di costruzioni antropologiche (più o meno immaginarie), caratterizzate dalla presenza determinante di connotati “naturali”, in quanto tali sottratti al fluire del tempo, immutabili. […] Ogni versione del dispositivo ideologico razzista ruota intorno a un’antropologia fissista, refrattaria a prendere sul serio il mutamento.

 

Il razzismo crea “tipi ideali” (positivi o, il più delle volte, negativi) sulla scorta dei quali giustifica comportamenti discriminatori […] e che per questo vengono costruiti con il linguaggio del naturalismo e sottratti al fluire del tempo […] a cominciare proprio dalla propensione a naturalizzare le dinamiche storico-sociali» (Burgio, 2003, pp. 6-10). Il fluire del tempo, e il senso-valore che gli viene attribuito, è il perno su cui ruota ogni discriminazione dell’altro socialmente condivisa e permanente: la conclusione di Burgio è chiarissima. Altrettanto mi sembra siano le conseguenze da trarne: il tempo che fluisce è percepito attraverso il racconto che noi stessi ne facciamo; questo racconto è la Storia. Ogni Storia contiene almeno due personaggi collettivi, un «noi» e un «loro», che si relazionano tra loro nel corso del tempo. Fissando e naturalizzando le gerarchie del presente – annullando cioè il fattore tempo, e una analisi seria del processo storico – la conseguenza è che le differenze e disuguaglianze che osserviamo oggi diventano non frutto di un processo storico-sociale, e quindi mutevoli, bensì l’espressione di una qualità intrinseca alle civiltà, quindi oggettiva, fissa, misurabile, comparabile.

Utilizzando questa lente che sottrae il fluire del tempo alle vicende umane, risulta legittimo costruire una graduatoria fissa e stabile tra le civiltà. E ecco che le differenze attuali relative, per esempio, ai concetti e alle pratiche della democrazia e dei diritti civili – libertà individuali e religiose, cultura e istituzioni democratiche, diritti delle donne e delle minoranze – che oggi possiamo osservare tra paesi e culture differenti diventano rappresentative di differenze strutturali (e quindi fisse, eterne, immodificabili in quanto espressione di una cultura assunta come immutabile)27 tra nazioni, paesi, civiltà. Cioè una misura della loro superiorità/inferiorità, un parametro che permette legittimamente di misurare «chi sta sopra e chi sta sotto» non solo ieri, oggi e forse domani, ma permanentemente. Perché quelle differenze sono espressione di una cultura che viene sinistramente rappresentata e utilizzata come una volta si faceva con i geni della razza, cui era scientificamente attribuita la causa per la quale le razze umane erano oggettivamente diseguali tra di loro!28 A fronte dell’esistenza di questo approccio e di esperienze come quella della Rivoluzione Francese che ci dovrebbe indurre a cautela e profondità nel valutare le prospettive messe in moto dalle Primavere Arabe, la competenza interculturale dovrebbe allora concorrere a dimostrare – sulla base di rigorose analisi storiche e sociali, e non utilizzando i pregiudizi a rovescio – che l’attribuzione di valore eterno alle culture/civiltà è non scientifico, arbitrario, funzionale ai piccoli interesse di potere di chi li esprime, e clamorosamente contraddicente la continua ricorsività del rapporto tra culture/civiltà che caratterizza la storia reale.29 

 

Ogni giudizio sulle Primavere Arabe è legittimo. Che siano in crisi è evidente. Che la condizione attuale di quei paesi rappresenti la fine di un processo di cambiamento, o che questo processo di cambiamento sia solo all’inizio, nessuno – penso – può provarlo oggi. E è alla fine di un libro scritto da chi per tanti anni è stato al vertice di una delle principali pubblicazioni cattoliche italiane, e parimenti tra i principali conoscitori italiani del Medio Oriente e del mondo islamico, che si trova la misura idonea per affrontare una complessità storico-sociale come quella costituita dall’evoluzione delle società arabo/musulmane – e dell’Islam in generale – nel contesto della geo-politica attuale. Riuscendo cioè ad associare il compromettersi esprimendo opinioni e valutazioni sugli avvenimenti contemporanei, senza «approfittare» di essi per emettere sentenze sulla Storia e le civiltà che la abitano: «La verità è che nessuno – nemmeno gli stessi musulmani – è in grado di affermare se la democrazia sia compatibile con l’Islam oppure no e quando, nel caso, questa ipotetica democrazia islamica dovrebbe o potrebbe manifestarsi. Sappiamo con certezza che finora la democrazia ha trovato poco o nessuno spazio nello sviluppo storico del mondo islamico. Ma non possiamo scommettere su quel che sarà domani, come nessuno avrebbe potuto scommettere, nel pieno delle guerre religiose del Cinquecento, sul fatto che l’Europa avrebbe certificato il principio fondante delle libertà di culto, cuius regio eius religio, con la pace di Augusta del 1555» (Scaglione, 2016, p. 201). E quanti secoli ancora, e quanti cannoni – e quanti fallimenti, quante Primavere e quanti Inverni - ci abbiamo messo per abbattere il Sacro Romano Impero, i Principati Protestanti e lo Stato Pontificio?

 

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Autore per la corrispondenza

Giorgio Dal Fiume
Indirizzo e-mail: g.dalfiume58@gmail.com
C.t.m. Altromercato, Via Crespi, 9, 39100, Bolzano



1 Dichiarazioni verbali di Donald Trump riportate dai media internazionali, rispettivamente: Rainews 8/12/15 (http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Donald-Trump-chiudere-accesso-agli-Stati-Uniti-per-i-musulmani-Questo-il-suo-piano-anti-Isis-ufficio-elettorale-del-candidato-repubblicano-diffonde-una-nota-2fd1789c-1bc3-4c65-bfb0-1311ef46436d.html), ultimo accesso: 29/03/17; Tgcom24 4/2/2016 (http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/speciale-elezioni-usa-2016/usa-2016-dopo-l-iowa-trump-crolla-nei-sondaggi-incalzano-cruz-e-rubio_2158722-201602a.shtml), ultimo accesso: 29/03/17; CNN, 10/3/2016 (http://edition.cnn.com/videos/politics/2016/03/10/donald-trump-islam-intv-ac-cooper-sot.cnn), ultimo accesso: 29/03/17.
2 In merito al rapporto globalizzazione/immaginario collettivo sono stati pubblicati numerosi studi, per approfondimenti si veda: U. Beck, Che cos'è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Firenze, Carocci, 1997; A. Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001; Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Bari-Roma, Laterza, 2002; C. Landucci e P. Mazzola, Cambia... menti. Percorsi formativi su globalizzazione, intercultura, economia, ambiente, Roma, Città Nuova, 2013; R. Rampini, Il tradimento. Globalizzazione e immigrazione, Mondadori, Milano, 2016.
3 Vedi H. Von Foerster, Sistemi che osservano, Roma, Astrolabio, 1987.
4 Tra i tanti si possono vedere: A. Ceron, Curini e S.M. Iacus, Social media e sentiment analysis. L'evoluzione dei fenomeni sociali attraverso la rete, Milano, Springer Verlag, 2013; G. Lovink, Ossessioni collettive: Critica del social media, Milano, Università Bocconi Editore, 2012; M. Castells, Comunicazione e potere, Milano, Università Bocconi Editore, 2009; M. Castells, Galassia Internet, Milano, Feltrinelli, 2013; S. Stieglitz e L. Dang-Xuan, Emotions and Information Diffusion in Social Media, «Journal of Management, Information Sistems», vol. 29, n. 4, 2013.
5 A. Taylor, Cosa pensano gli europei di musulmani, ebrei e rom, «il Post», 14 Maggio 2014, http://www.ilpost.it/2014/05/14/europa-minoranze-rom-ebrei-musulmani/,ultimo accesso 29/03/17.
6 http://www.islamic.org.uk/italiano/default.asp, ultimo accesso: 29/03/17; https://www.jihadwatch.org/, ultimo accesso: 29/03/17.
7 Per approfondimenti si veda: M. Kilani, Antropologia. Da locale al globale, Bari, Dedalo, 2011; M. Kenan, Il multiculturalismo ed i suoi critici, Roma, Nessun Dogma, 2016; S. Moller Okin (a cura di), Multiculturalismo e diritti delle donne, Milano, Cortina, 2007; R. Grillo e J. Pratt (a cura di), Le politiche del riconoscimento delle differenze: multiculturalismo all’italiana, Rimini, Guaraldi, 2006.
8 A. Taylor, Cosa pensano gli europei di musulmani, ebrei e rom, «il Post», 14 Maggio 2014, http://www.ilpost.it/2014/05/14/europa-minoranze-rom-ebrei-musulmani/,ultimo accesso: 29/03/17, http://it.ibtimes.com/sondaggi-politici-cosa-pensano-gli-italiani-degli-attentati-e-dellislam-1460365, ultimo accesso: 29/03/17.
9 Confronting Fear, 2016 Islamophobia report (2016), p. 1, http://www.islamophobia.org/images/ConfrontingFear/Final-Report.pdf, ultimo accesso: 29/03/17.
10 http://www.robert-schuman.eu/en/doc/questions-d-europe/qe-403-en.pdf, ultimo accesso: 29/03/17.
11 Ibidem, abstract, p. 1.
12 Su internet 2.190 documenti includono questa domanda nella sua versione in italiano.
13 La statunitense Freedom House colloca nel passaggio dal 2014 al 2015 la collocazione della Tunisia nella lista dei paese «liberi» (tra 2011 e 2012 passò da «non libera» a «parzialmente libera»): https://freedomhouse.org/report/freedom-world/2015/tunisia, ultimo accesso: 29/03/17.
14 O.Fallaci, Discorso in occasione del ritiro del Annie Taylor Award, 2005, (http://www.liberoquotidiano.it/news/libero-pensiero/11680914/Oriana-Fallaci-e-l-Islam-.html), ultimo accesso 29/03/17, che riprende i contenuti del suo libro del 2004 Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’apocalisse, Rizzoli, Milano.
15 Il libro di cui alla nota precedente uscì in edicola nel 2004 con il quotidiano «Corriere della Sera» e vendette oltre un milione di copie in quarantotto ore.
16 http://www.iltempo.it/politica/2015/01/11/news/non-esiste-lislam-moderato-965123/, ultimo accesso: 31/03/17; http://www.ilfoglio.it/chiesa/2015/08/26/news/lislam-moderato-non-esiste-86922/, ultimo accesso: 31/03/17; http://www.tempi.it/quirico-islam-moderato-jihad-califfato-primavera-araba-siria#.WLBLo4-cHIU, ultimo accesso: 29/03/17.
17 C. Hillebrand, Islam. Una nuova introduzione storica, Torino, Einaudi, 2016.
18 Per approfondire la critica al diffuso approccio Occidentale che rivendica il copyright dell’invenzione della democrazia vedi p. es. A.K. Sen, La democrazia degli altri, Milano, Mondadori, 2004.
19 Collezione di titoli riferiti alle Primavere Arabe.
20 Cfr. per esempio l’opera di E. Burke, de L. Bonald, J. de Maistre.
21 Tra i più recenti si veda: M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Bari-Roma, Laterza, 2012; M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1991 ad oggi, Bari-Roma, Laterza, 2012; F. Scaglione, Il patto con il diavolo. Come abbiamo consegnato il Medio Oriente al fondamentalismo ed all’Isis, Milano, Rizzoli, 2016; F. Amodeo e M.J. Cereghino, Lawrence d’Arabia e l’invenzione del Medio Oriente, Milano, Feltrinelli, 2016.
22 D. Quirico, inviato del quotidiano «la Stampa», http://www.tempi.it/quirico-islam-moderato-jihad-califfato-primavera-araba-siria#.WLBLo4-cHIU, ultimo accesso 29/03/17.
23 Conclusione di una dichiarazione del 21/9/2001 dell’On. Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio dei Ministri italiano, nell’ambito di una visita ufficiale in Germania, ripresa dai giornali di tutto il mondo.
24 Per approfondimenti si veda: J.L. Esposito e D. Mogahed, Tutto quello che dovresti sapere sull'Islam e che nessuno ti ha mai raccontato, Roma, Newton Compton, 2009; C. Hillebrand, Islam. Una nuova introduzione storica, Torino, Einaudi, 2016.
25 Oriana Fallaci: «E poi dietro la nostra civiltà c'è il Rinascimento. C'è Leonardo da Vinci, c'è Michelangelo, c'è Raffaello, c’è la musica di Bach e di Mozart e di Beethoven. Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi and Company. Quella musica senza la quale noi non sappiamo vivere e che nella loro cultura o supposta cultura è proibita. Guai se fischi una canzonetta o mugoli il coro del Nabucco». Estratto dall’articolo uscito sulla prima pagina del Corriere della Sera, 29/9/2001.
26 http://www.mbc.net/ar/programs/arab-idol-s4.html, ultimo accesso: 29/03/17.
27 Questa è la «critica interculturale» da più parti mossa per esempio al famoso saggio di S. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Milano, Garzanti, 2000.
28 L’autore che a nostro avviso prima e meglio ha rappresentato il passaggio dalla «natura» alla «cultura» come base di riferimento per le discriminazioni etniche è stato P.A. Taguieff in La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull'antirazzismo, Bologna, il Mulino, 1994.
29 Per approfondimenti su questo tema consigliamo tra gli altri autori come Franco Cardini, Ahmed Djebbar, Jack Goody, Abdelwahab Meddeb, Edward Said, Amartya Sen.

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ISSN 2420-8175 Educazione interculturale (Online).
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